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Autore Topic: Kidou Senshi Gundam: Ashes of the War (il romanzo)  (Letto 2423 volte)
matte
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« il: 08 Agosto 2007, 17:30:48 »

Ladies and Gentlemen, ci siamo...

Mobile Suit Gundam: Ashes of the War
Mobile Suit Gundam: Le Ceneri della Guerra


Prima parte – Notte sull’Europa
(14. Aprile 2015 – 29. Agosto 2015)

 
Prologo

14. Aprile 2015

Saint Emilion (Dipartimento della Gironda - Francia), h 21.55 (h 21.55 GMT)

Niente da fare – per l’ennesima volta. Fraw non aveva intenzione di rispondere. E riprovarci, magari più tardi, sarebbe stato inutile – anzi controproducente. Le dieci e 55, ora di Rammstein: un bisbiglio dopo le 11 di sera, e tutta la base sarebbe stata svegliata dalle urla belluine del colonnello Bowmann. La flessibilità non era mai stata una sua virtù – e, stando ai racconti del vecchio Tem, gli anni non l’avevo ammorbidito – per niente.
Amuro, scornato e sconfitto, si sdraiò sul mantello d’erba verde e soffice, abbandonandosi al mare di stelle che silenzioso lo sovrastava.
Nel cuore dell’Aquitania, lontani chilometri e chilometri dal più vicino e miserevole centro abitato, le stelle splendevano più belle che mai… sembravano una polvere argentea a scintillante di cui la notte aveva deciso di decorare il suo mantello più seducente, simile a quei veli che le donne dell’Oriente indossavano, un tempo, per sedurre gli uomini che avevano scelto a diventare propri compagni – di una vita intera o soltanto di una notte.
Chiuse gli occhi, e ripensò agli ultimi mesi… e ad un altro cielo notturno. Ben più cupo, ben più triste. Tre notti passate all’addiaccio, la morsa della fame a stritolargli il ventre e le budella, ed a piegare un corpo non abituato alle privazioni… ma l’orgoglio, quello mai. Per orgoglio era scappato di casa. Per orgoglio, si era rifiutato di tornare – finché suo padre, il colonnello Timothy “Tem” Rey, non s’era ridotto a cercarlo nella stazione dei bus di Kaiserslautern, implorandolo di lasciare quel ritrovo di tossici e sbandati, e di rientrare alla base di Rammstein, insieme a lui.
Ed anche allora Amuro non aveva detto una parola – una soltanto. Immobile, impassibile come la statua di un’altera divinità ellenica… L’aveva giurato andandosene: non sarebbe mai tornato in quella casa – mai più. Non avrebbe mai più dormito sotto lo stesso tetto di un uomo che gli era padre – certo. Ma che intimamente disprezzava. Alla fine, Tem Rey aveva ceduto. Gli aveva trovato una stanza, in un dormitorio per studenti stranieri, alla periferia di Kaiserslautern, poco lontano. Da allora, ed era passato un anno, Amuro aveva vissuto da solo.
La lontananza aveva migliorato i loro rapporti – pur senza ricucire lo strappo prodotto da anni di reciproche incomprensioni. E da un divorzio doloroso.
Cosa sarebbe stato del futuro di Amuro, soprattutto, restava un problema irrisolto.
Tem avrebbe voluto che seguisse le sue orme – entrasse nell’esercito degli Stati Uniti e percorresse la carriera da ufficiale. Desideri irrealizzabili, come lui stesso aveva dovuto ammettere: in tanti anni, non aveva mai conosciuto nessuno tanto impermeabile, tanto risolutamente inconciliabile, con l’ordine, l’obbedienza e la disciplina quanto il proprio erede… un diabolico scherzo del destino.
“Amuro! Amuro!”
La voce di Klaus. Lo stavano richiamando: anche quella sera non sarebbe riuscito ad evitare l’insopportabile rito del bivacco. Anche quella sera, il suo desiderio di silenzio e di solitudine si sarebbe scontrato e frantumato sugli scogli del campeggio.
“Arrivo, Klaus! Arrivo subito!”
“Sbrigati,” rispose quel lungagnone pallido ed emaciato, così sottile che un soffio di vento sarebbe bastato a sollevarlo e portarlo via. “Sbrigati,” riprese, “che il professor Köller si sta innervosendo…”
“Sì Klaus… arrivo, arrivo…”
Si sollevò, lentamente – non quanto avrebbe voluto, tuttavia: persino a quelle regole, Amuro si aggiogava controvoglia, e soltanto perché non aveva altra scelta. Gliel’aveva imposto suo padre, il colonnello – terrorizzato che il figlio potesse sprofondare in un’irreversibile asocialità, aggrappandosi a quanto restava della sua paterna autorità. E facendosi forza dell’esser colui che, materialmente, pagava il suo mantenimento ed il suo affitto… Fosse dipeso da Amuro, quelle vacanze pasquali le avrebbe spese in altro modo. Inforcando la sua moto, per esempio. Iniziando il viaggio che aveva sognato da anni, e pianificato sin nel minimo dettaglio. Dalla Renania alle falde del Caucaso: tutto in sella della sua BMW di terza mano.
Non che il viaggio in Aquitania gli desse sui nervi. E tantomeno il vivere per sette giorni all’aria aperta – tutt’altro. Anzi: quella parte gli sarebbe riuscita oltremodo gradevole. Tuttavia, partecipare ad un evento del genere significava accettarne le regole ed i rituali – e soprattutto i ritmi. Nulla di più alieno alla mentalità di un ragazzo che non accettava né gli uni né gli altri. E che amava decidere del proprio tempo da un istante all’altro.
“Amuro!!”
“Arrivo!”
Chinando l’orgoglio all’altrui autorità, Amuro sollevò lo sguardo verso il cielo. S’incamminò verso il fuoco dell’accampamento – ma la sua anima scappava via lontana. Fra le stelle dell’Orsa ed Orione cacciatore… fra quelle scintillanti stelle cadenti che brillavano non lontane dalla Luna.

Osservatorio del Monte Palomar, USA h 15.15 (h 22.15 GMT)
Se la dottoressa Sandro Ho avesse saputo che diventare direttrice dell’Osservatorio avrebbe significato smettere il camice dello scienziato per indossare gli scomodi panni del burocrate, nemmeno sotto tortura avrebbe accettato quell’incarico. Le montagne di inutili scartoffie che le inondavano la scrivania rendevano il suo umore sempre più acido – e di base, diceva suo marito, già quello ‘virava al rosso’… Come se non bastasse, come se il tempo non le bastasse mai – persino per farsi un caffè, ecco l’ultima mail di Simon: “Vieni da me il prima possibile, SS”.  Simon Schuster, appunto.
“Per il tuo bene, mi auguro si tratti di qualcosa di veramente serio…” ringhiò, sbattendosi la porta dell’ufficio di Simon dietro le spalle.
“Ah Sandra! Per fortuna sei arrivata!” esclamò il giovane e riccioluto astrofisico, sfuggendo per un attimo ai tentacoli dei suoi calcoli e delle sue equazioni.
Sandra scosse la testa: con quegli occhiali, lerci ed unticci, com’era possibile che riuscisse a vederci qualcosa… Con quella camiciona di paille, a quadrati verdi e neri – pensava, con quella pancia da bevitore di birra (ed era rigorosamente astemio…), come poteva prendere che una donna pensasse (sì, soltanto pensasse!) di passare cinque minuti in sua compagnia? Del resto, si diceva fra i colleghi, il problema si sarebbe posto soltanto se Simon avesse avuto una vita privata… restando pertanto un discorso tutt’al più ipotetico.
Fortunatamente, Simon era tanto lercio e disordinato nella propria vita privata quanto meticoloso e di assoluto rigore in ogni aspetto del lavoro. Si favoleggiava che sapesse scrivere equazioni di pagine e pagine senza la minima cancellatura… Fosse stato diversamente, nessuno avrebbe privato la dottoressa Ho della sua pausa caffé.
“Allora Simon, che succede? Sono sommersa di lavoro e di cartacce… per farla breve, o qui sta per caderci una cometa sulla testa, oppure sulla testa te la tiro io…”
Simon si tolse le lenti, spesse quanto fondi di bottiglia, e le indicò un angolo del gigantesco monitor da 28 pollici, intasato ed affollato di pagine e finestre che persino a Sandra sembravano quantomeno incomprensibili.
 “Hai visto?” esclamò il fisico, con la faccia del gatto che si è appena divorato il topo più grasso e gustoso.
“Hai visto cosa?!” fece la Ho, piuttosto spazientita da quell’orbitare intorno al problema, senz’affrontarlo realmente.
“Ah… scusami… te lo ingrandisco subito!”
Spostato il puntatore del mouse su un’anonima ed incomprensibile finestra, la ingrandì a tutto schermo. Per Sandra, fu come ricevere una pugnalata nella schiena.
“Che diamine…”
La foto riportava la data della notte precedente. L’elaborazione aveva richiesto diverse ore: ne era valsa la pena, a quel che pareva. Si intravedevano due figure, simili ad ellissi, ed il trattamento dell’immagine rivelava una fortissima emissione di calore dalle loro porzioni posteriori.
“Secondo te, verranno da Kronos o da Vulcano?” sorrise il vecchio Nerd rinchiuso nel corpo e nell’animo di Simon.
“No, Simon…” pensò Sandra, bianca come un cencio: “… tu non hai la minima idea di cosa stia per accadere.”

Pentagono, Washington (USA), h 15.55 (h 22.55 GMT)
Il generale Sullivan si slacciò nervosamente il colletto della camicia, ed al diavolo che l’etichetta militare imponesse un ordine assai più rigoroso. Nonostante la temperatura della stanza virasse ad un verso venti gradi scarsi, rinchiuso nella sua divisa, nuotava nel proprio sudore. Del resto…
“Del resto, generale McMartin, nessuno – in quasi ottant’anni, ha mai dovuto affrontare qualcosa del genere…”
Il rosso e rubizzo comandante in capo della USAF puntò i pugni sul tavolo – e per fortuna che i politici non fossero ancora arrivati.
“Generale Sullivan, può darsi che nessuno abbia mai affrontato qualcosa del genere, ma resta il fatto che almeno si sarebbero dovuti porre il problema – cosa che hanno rigorosamente evitato. A quanto pare…”
“Suvvia, signori… a questo punto, recriminazioni od altro sono tempo perso,” sospirò il Segretario della Marina, senatore Douglas Davidoff, spegnendo il suo proverbiale sigaro cubano, e lasciando che il suo fumo grigiastro e saporito risalisse verso i rilevatori di fumo. Ovviamente spenti prima della riunione.
“Abbiamo 24 h, forse meno…”
“I calcoli degli astronomi sono affidabili?” domandò Sullivan, sprofondando nella poltrona di pelle.
“Li sto facendo controllare,” rispose McMartin, incalzato da Davidoff.
“Io sto facendo lo stesso… Ma stando al nostro servizio aerospaziale, è più probabile trovare un errore di grammatica in Shakespeare che uno di calcolo in qualcosa proveniente dall’Osservatorio del Monte Palomar… Inoltre,” proseguì, cercando nervosamente un altro sigaro da accedere, “conosco personalmente la dottoressa Ho. Sono stato io a consegnarle il Dossier Bradley, non appena nominata direttrice dell’Osservatorio … è precisa e rigorosa quanto un sergente dei Marines… No, signori. Se ha creduto di doverci trasmettere…”
La porta della stanza si aprì, lasciando penetrare una lama di luce. Era un uomo alto ed asciutto, Sean Miller, il Segretario della Difesa: probabilmente, l’unica persona, in tutta Washington, che i tre concordassero nell’apprezzare – Presidente Compreso. O, quantomeno, nel non odiare.
“Mi sono perso qualcosa?” domandò sedendosi ai bordi del grande tavolo rotondo, poco lontano da dove, entro qualche minuto, avrebbe seduto il Presidente in persona.
“Stavamo dicendo”, riprese il Segretario della Marina, “che se la dottoressa Ho ci ha mandato qualcosa del genere…”
“Sì, concordo…” l’interruppe, aggiustandosi la giacca nera, finissima – un regalo per così dire impostogli dalla moglie, durante l’ultimo viaggio in Italia, poco prima della nomina. E che aveva contribuito a celebrare la sua fama di uomo più elegante, e raffinato, dell’amministrazione Ligghety.
“La dottoressa Ho,” riprese Miller, “è stata candidata al Nobel per la fisica due volte… tre, anzi. Se questa storia non fosse vera…”
Lasciò che la frase morisse così. I quattro, tutti insieme, fissarono il centro del tavolo – immobili, silenziosi. In realtà, tutti, intimamente, speravano che quella donna non avesse semplicemente sbagliato. Che avesse preso un abbaglio, colossale. E che quella storia non fosse che uno scherzo di pessimo gusto… Ma quello sarebbe stato un sogno, che non gli era consentito di vivere.
“Ha già parlato con il presidente?” domandò il Segretario della Marina.
“Sì, pochi minuti fa… adesso, è al telefono con i nostri principali alleati.”
“Non dev’essere una telefonata molto piacevole…” sospirò McMartin.
“Affatto,” mormorò Miller, “buona parte di essi non sa nulla – di questa faccenda. In quanto ai francesi ed ai russi, loro avrebbero voluto che chiudessimo il conto almeno una trentina d’anni fa. Dio non voglia che… beh, ci siamo intesi.”
Sullivan si allargò ulteriormente il colletto della camicia: ma perché in quella stanza c’era un caldo così insopportabile?
“Già m’immagino quello sgorbietto di Sarzoky…”
“D’altra parte,” riprese Miller, toltosi gli occhiali dal naso, “dargli torto sarebbe piuttosto difficile. Il presidente De Gaulle aveva richiesto un attacco nel marzo del ’49. L’avessero ascoltato, probabilmente non saremmo a questo punto…”
Un attacco improbabile – anzi: impossibile. La guerra di Corea, il definitivo frantumarsi degli Alleati, ed il loro coagularsi nei due blocchi contrapposti della NATO e del Patto di Varsavia…
“Credo che dovremmo proclamare lo stato di Emergenza Nazionale…” sussurrò Davidoff – quasi spaventato dalle sue stesse parole.
“Non è così semplice…” rispose il segretario Miller, ancor più serio e cupo.
“Emanasse lo stato di Emergenza,” riprese, “il Presidente dovrebbe darne giustificativo alla Nazione. Il che significherebbe ammettere l’esistenza del Rapporto Bradley, del Blue Book… e di tutte le porcherie che sono state compiute negli ultimi cinquant’anni, da una parte e dall’altra dell’Atlantico, per tenere segreta questa storia.”
“Concordo con il segretario Miller,” esplose una voce rumorosa, proveniente dalle loro spalle. Lo specchio oscuro di Miller, in un certo senso: Kaleb McIntire, il direttore della NSA. L’unico uomo che, grazie alle leggi speciali emanate dopo il 2001, avrebbe potuto permettersi di prendere la parola durante il Superbowl, mandare al diavolo il presidente degli Stati Uniti, ed uscirne lindo e tranquillo come uno scolaretto al primo giorno di scuola.
Entrato come uno spettro, sembrava che persino il suo semplice passare diffondesse un’aria ancor più fredda e tetra.
“Noi della NSA,” riprese, “abbiamo studiato la possibilità di divulgare la notizia… in tutte le nostre simulazioni, la cosa si è sempre risolta in un disastro… no signori, l’unica cosa che possiamo fare è innalzare al massimo lo stato di allerta – e prepararci al peggio.”
Quell’ultima frase risuonò come una fosca maledizione, ma tradiva ciò che tutti i presenti provavano, nel più nascosto recesso dei propri pensieri.

Okinawa, Giappone h 7:22 (h 23:22 GMT)
“Cosa ne sa del professor Kozumi?”
Quella domanda a bruciapelo fu per Sienna Anderson come una fucilata in pieno petto. Ancora stordita dal lungo viaggio aereo, avrebbe avuto difficoltà a rispondere nella sua madrelingua inglese – nel suo giapponese elementare improvvisato, poi…
“Non molto, ad essere onesti…” rispose, balbettando sotto lo sguardo divertito di Hideoshi Sato, l’ufficiale di collegamento fra il Centro di Ricerca e la base militare americana di Okinawa.
“Non si preoccupi, signorina Anderson… risponda pure in inglese.”
Un sospiro di sollievo: Sienna aveva iniziato a studiare giapponese pochi mesi prima, dopo aver vinto la borsa di studio che l’aveva portata in oriente, e le sue capacità sintattiche non andavano molto oltre “Mi scusi, dove si trova la mostra di Picasso?” e “scusi, vorrei un piatto di sushi”.
La giovane biologa riannodò gli sparsi fili delle sue informazioni, ed espose meccanicamente quanto sapeva. Sperando, per altro, che la discesa dell’ascensore terminasse in tempo per interrompere quella sgradevole situazione – Sato non le piaceva affatto. Alto, quasi femmineo nell’aspetto, gli occhi nerissimi sempre nascosti dietro occhiali da sole tanto scuri da sembrare due pezzi di plastica opaca… vestito in giacca e cravatta, non soltanto sembrava la versione nipponica di Will Smith in M.I.B. – ma le ricordava tetramente quei loschi personaggi della Yakuza, sempre pronti a mettere le mani addosso alle giovani ed avvenenti Gai-Jin non appena l’occasione fosse propizia…
“So che è molto giovane, quantomeno per essere il direttore di un centro di ricerche di queste dimensioni… Che ha pubblicato un centinaio di articoli su riviste internazionali, e che viene considerato il genio indiscusso della robotica e della cibernetica applicata…
Sul fatto che avesse vissuto in America fino a pochi anni prima, e che sua moglie Elise fosse americana, e più anziana di lui di quattro anni, che avessero tre figli… beh, su quei dettagli Sienna preferì sorvolare.
“Basta così…” sorrise Sato. “E se le parlassi del ‘professor Otaku’?”
L’arrivo dell’ascensore strappò Sienna dall’imbarazzo. Otaku? Un termine che, in effetti, conosceva molto bene. Martin Lawrance. E, più in generale, gli appassionati di fumetti ed animazione giapponese – quei bambini mai cresciuti che spendevano tempo e denaro per circondarsi di DVD, modellini, poster… qualsiasi paccottiglia, insomma, che avesse a che fare con le loro serie ed i loro eroi preferiti… Persone di cui, colpa di Martin o meno, non aveva esattamente un’altissima opinione.
Ma probabilmente, pensò, doveva essersi confusa. Professor Otaku? Sicuramente, anzi, si stava confondendo. Sarò vittima, pensò, delle solite vocali giapponesi: il suo orecchio, infatti, non s’era ancora abituato a cogliere la lunghezza delle vocali – aspetto non secondario in una lingua in cui “sama” è il più rispettoso dei titoli onorifici attribuibili ad una persona di sesso femminile e “saama” il peggiore degli insulti. Comunque, quel nome non le diceva proprio nulla.
Immersa in quei pensieri, nemmeno si accorse di essere arrivata di fronte all’ufficio di Kozumi, come ben segnalato dalla targhetta bilingue, in giapponese ed inglese.
“Kozumi Soichiro, leading scientist – director”.
“La lascio qui,” disse Sato, in giapponese, “per adesso.”
Bussò alla porta due volte, ed una voce vigorosa e giovanile risuonò dall’interno: “Avanti!” esclamò, in un giapponese dal vigoroso e strascicato accento american english.
Sienna entrò, cauta e silenziosa. Si trovò di fronte il più classico degli studi, non foss’altro che completamente interrato. Ma le somiglianze si fermavano alla patina più esteriore. Le quattro pareti erano completamente occupate da scaffali e librerie, strabordanti di libri, libricini, carte e cartacce, una parte delle quali avevano vinto e superato gli argini, ricadendo a terra e su questa distendendosi trasformandosi in una specie di tappeto. Dalla parte opposta rispetto alla porta d’ingresso, una scrivania in vetro trasparente, sulla quale troneggiavano due colossali iMac da 28’’. Dietro i grandi schermi, s’intravedeva una figura bianca e nera, un ciuffo di capelli scuri come l’inchiostro: il professor Kozumi, I suppose.
Immobile al centro della stanza, Sienna aspettò che il direttore le dicesse qualcosa – foss’anche soltanto di sedersi. Ma non ci fu risposta.
Dopo qualche secondo, con un gesto molto americano e molto poco nipponico, Sienna finse un colpo di tosse per richiamare l’attenzione. Inutile. L’uomo continuava a fissare gli schermi, impassibile. Sienna riprese a guardarsi intorno, cercando di distrarsi dall’attesa. Effettivamente, gli scaffali erano stracolmi di libri, invero di ogni genere. Trattati di robotica e di cibernetica, file interminabili di DVD e CD di dati, incastrati alla bene e meglio per sfruttare ogni centimetro cubo di spazio… ma anche…
Lentamente, con cautela, Sienna s’avvicinò alla libreria più vicina, sulla sua destra. Per un attimo aveva pensato d’essersi sbagliata – la sua conoscenza di hiragana e katakana era tutt’altro che ottimale… ma quando poté leggerne il dorso da vicino, si tolse ogni dubbio. Buona parte dei volumetti, circa la metà di quanto occupava le librerie, era costituito da fumetti. Shin Getter Robot, Astroboy, Ayashi no Ceres, Anatolia Story, l’immancabile Dragon Ball… e così, metà dei DVD era costituito da film e serie intere di cartoni animati. Ma cosa…?
“Ah ah!” esclamò Kozumi, letteralmente saltando sulla sua sedia e dimenando le braccia come un pazzo. “Dovreste saperlo, stupidi dinosauri, che nessuno può battere Shin Getter Robo e Nagare Ryoma!”
Sienna pensò per un attimo che tutto ciò non potesse essere vero. Che quello fosse uno scherzo – e di pessimo gusto.
Il professor Kozumi, due volte candidato al nobel per la fisica, stava dimenandosi come un bambino di fronte ad un cartone animato… no, non era possibile.
Soltanto allora, il professore si accorse di lei: si liberò le orecchie dagli auricolari, dai quali eruppe il sussurro di una canzone in giapponese – probabilmente, la sigla finale del cartone animato e, aggirando prontamente l’ingombro della scrivania, le porse la destra..
“Signorina Anderson, mi scusi! Ero piuttosto… distratto.”
“Professor… Kozumi? Giusto?”
Il professor Kozumi sembrava ancor più giovane dei suoi trent’anni. Altissimo, per essere un giapponese, sottile e longilineo, gli occhi luminosi ed intelligenti nascosti dietro sottilissimi occhiali da vista. E, soprattutto, sembrava visibilmente imbarazzato.
“Mi perdoni ancora, signorina… una vecchia passione…”
“Capisco…”
In realtà, Sienna non capiva affatto.
“Deve perdonarmi…” sorrise Kozumi, invitando la propria ospite a sedersi. “Sono nato in un piccolo villaggio nel nord del Giappone, non lontano da Nagano: come può immaginare, non c’era molto di che svagarsi”, raccontò, in una strana miscela di inglese e giapponese che, stranamente, non fece smarrire nemmeno la principiante Sienna.
“Quand’ero libero,” riprese, “e non avevo voglia di studiare, leggevo fumetti e guardavo cartoni animati… una mania che mi è rimasta negli anni…”
Sienna ebbe una folgorazione, invero piuttosto spiacevole: “E’ per questo che la chiamano il professor Otaku?”
Kozumi Soichiro, che il Time aveva definito “il più geniale scienziato mai partorito dall’università di Berkeley”, rise come un bambino: “Sì, signorina! A quanto pare, il signor Sato l’ha istruita a dovere – è un soprannome di cui vado molto fiero… ma adesso parliamo di lei…”
Poggiati i gomiti sul tavolo, ed intrecciate le dita delle mani davanti il viso, Kozumi snocciolò di fronte a Sienna, stavolta in rigoroso e pressoché perfetto inglese, tutto il suo curriculum vitae.
“Nata a Denver, Colorado, l’11. Marzo 1992. Columbia University, corso di Biologia. Classe del 2013: laureata summa cum laude con tesi ‘Impiego di biosensori per la trasduzione e l’interpretazione di impulsi elettrici neuronali’… Allieva del professor Kahn, che nella sua lettera di presentazione ha per lei spento parole di massima stima… Dottorato di ricerca in neurobiologia conseguito tre mesi fa…  ha pubblicato ventisette articoli su riviste peer-review con impact factor superiore a 3… i miei sentitissimi complimenti, signorina. Le confesso che, quando ci è arrivata la sua richiesta, non abbiamo avuto dubbi circa la sua ammissione al nostro programma…”
Sienna arrossì, ma non se ne accorse: sapeva che il professor Galamir Kahn e la professoressa Heinze-Kahn avessero speso per lei parole di elogio – ma fino a questo punto. In effetti, erano stati loro a spingerla perché presentasse domanda di partecipazione al programma di ricerca. In un certo senso, si può dire l’avessero praticamente obbligata…
“Detto ciò, signorina…” Kozumi si fece improvvisamente serio – anzi, cupo. “Detto ciò, mi vedo costretto a porgerle alcune domande – piuttosto antipatiche, glielo anticipo.”
Sienna s’irrigidì. Kozumi così serio era forse più minaccioso di Sato. Iniziava ad assomigliare agli scienziati, geniali ma pazzi, dei cartoni animati. E non era propriamente un buon segno.
“Prima di tutto, nel suo CV non spende una parola sulla sua famiglia. Posso chiederle perché?”
Una domanda cui Sienna avrebbe preferito non rispondere. Ma cui, se ne rendeva conto, non avrebbe potuto oppure silenzio.
“Non ho rapporti con i miei genitori da dodici anni”, rispose – lapidaria ed asciutta come un’iscrizione latina. “Se possibile, preferirei non entrare nell’argomento.”
“Invece,” riprese Kozumi, “si tratta di un argomento del quale dobbiamo parlare. Visto che, all’anagrafe di Denver, Colorado, non risulta nessuna Sienna Anderson… quantomeno, nessuna Sienna Anderson nata l’11. Marzo 1992.”
Sienna sbiancò. Seguì un lungo, interlocutorio silenzio in cui la giovane frugò nervosamente nella sua mente alla ricerca di una scusa ragionevole… ma fu come se dalla sua mente tutto fosse stato cancellato, e di essa non restasse che un foglio bianco, impermeabile a qualsiasi inchiostro.
“In compenso,” riprese Kozumi, severo e deciso come un Samurai che sferri il suo colpo di grazia, “abbiamo trovato una certa Sienna Lawson – nata sempre a Denver, Colorado, l’11. Marzo 1992.”
Ma come aveva fatto un semplice professore universitario a…
“Signorina Sienna,” riprese Kozumi, “immagino il suo stupore. Lei deve rendersi conto che questo non è semplice programma di ricerca scientifica. Come avrà notato, noi ci troviamo al confine della più grande base militare americana in Asia. Questo è, a tutti gli effetti, un programma congiunto americano giapponese – un programma con scopi militari. Ciò che qui stiamo sviluppando è protetto dalla massima segretezza. Si renderà conto che non possiamo certo ammettere il primo arrivato – ed anche in presenza delle migliori referenze, siamo costretti ad accertamenti molto approfonditi. Ora glielo chiederò una sola volta: perché? Se non mi risponderà, il signor Sato entrerà da quella porta e l’accompagnerà all’uscita. E questo programma le sarà precluso – per sempre. Sono stato chiaro.”
Sienna raccolse la faccia fra le mani, celando lacrime scatenate dall’emozione e dall’agitazione. Mai – mai!, avrebbe pensato che qualcosa del genere potesse accaderle in quel posto. Mai, salendo la scaletta dell’aereo, piena di gioia per quell’avventura che le si stava aprendo… mai, preparando eccitata le valige, ed interrogando internet su quale fosse il clima di Okinawa…
Perché quei fantasmi tornavano ad inseguirla, anche lì?
“Va bene… va bene professore… Ha ragione: il mio vero nome è Sienna Lawrance. Ma nessuno mi chiama più così dai tempi dell’high school. Sono scappata di casa, a quindici anni. Ed ho vissuto per sei mesi come una vagabonda, in giro per l’America…”
Liberati gli occhi marroni, li sollevò e li puntò verso Kozumi – profondi e rabbiosi come sfere infuocate. Lentamente, sollevò la manica destra della camicetta: tremante, essa svelò il marchio che dalla prima giovinezza la inseguiva e la tormentava. Cicatrici e noduli dall’aspetto inconfondibile segnavano la fossa cubitale: precedenti iniezioni endovenose, ripetute. La stigmata di chi, per anni, abbia fatto abuso di droghe iniettabili.
“A quindici anni iniziai a farmi di eroina. Il mio ragazzo, James, aveva iniziato per primo – ed io gli venni dietro, fedele e stupida come può esserlo una ragazzina innamorata. Rimasi anche incinta. I miei genitori ci scoprirono: scappammo via. Vivemmo come vagabondi per sei mesi, tirando a campare di elemosina e furtarelli.”
Poi, sei mesi dopo, la tragedia. Buffalo, Stato di New York. Una partita di eroina tagliata male. Sienna non ricordava cosa fosse successo – ma al risveglio, era sola, in una stanza d’ospedale. Ed il bambino, che era cresciuto in lei fino a quel momento, non c’era più. Il suo ventre era vuoto – e ferito. James era morto. Suo figlio era morto. Lei era viva per miracolo.
Di fronte al baratro, Sienna aveva deciso di cambiar vita. Si era rivolta ai genitori – tutto inutile. I signori Lawrance le risposero al telefono che una figlia, sì, l’avevano avuta – un tempo. Ma che era morta. Di lei, insomma, non volevano più saperne nulla. Ormai sola, era stata raccolta da un gruppo di religiose. Con il loro aiuto, era lentamente risalita dal fondo. Aveva cambiato nome, ed identità. Si era diplomata, con voti altissimi che le avevano aperto le strade per i migliori college. Suor Therese, la sua vera madre, aveva scritto per lei una lettera di presentazione – proprio a Galamir Kahn. Chiedendogli di fare il possibile per promuovere la sua ammissione alla Columbia. E, ma questo non le era stato detto, non subito almeno, di vegliare su di lei…
Ecco tutto.
“Se avevate paura di una spia… state tranquilli, io non lo sono. Ed ora, immaginando che voi di me possiate farne volentieri a meno…”
“Non corra a conclusioni, signorina… Galamir è un amico, prima ancora che un collega stimatissimo. Ed è uno dei pochi a conoscere le reali finalità di questa ricerca. Se l’ha raccomandata personalmente, allora ritiene che lei sia adatta a questo lavoro… se lei è adatta a questo lavoro, io ho bisogno di lei.”
Dicendo questo, prese un plico sigillato e vergato da un timbro scarlatto: “TOP SECRET”. Glielo consegnò: Kozumi era tornato sorridente e cordiale. Tanto che Sienna, per un attimo, si chiese se l’inquisitore non fosse altri che il gemello malvagio dell’uomo che le stava di fronte…
“Ovviamente,” spiegò il professore, “si tratta di una copia personale. Non la perda o smarrisca, perché sia io che lei avremmo dei problemi. Su ogni pagina è riportato il suo nome – di modo che, qualora delle copie dovessero essere trafugate, noi possiamo ricavare immediatamente la fonte…”
“Posso aprirlo?” chiese Sienna, che non domandava altro per mettere l’angoscia ed il dolore di quei ricordi alle spalle.
“Lei non può… lei deve aprirlo!” sorrise Kozumi, sprofondandosi nella poltroncina.
Sienna iniziò a sfogliarne il contenuto, in silenzio. Allibita.
Non fosse stato che quella faccenda sembrava terribilmente seria, la dottoressa Sienna Anderon (ex Lawrance) avrebbe davvero pensato ad uno scherzo. E di pessimo gusto.

Base area di Decimumannu, Sardegna (Italia) – h 00.35 (23.35 GMT)
Il comandante Gennari era convinto che per diventare pilota di caccia si dovesse essere dei pazzi. Ed il passare degli anni lo convinceva della bontà della sua prima impressione. Nessuna persona sana di mente, pensava, avrebbe considerato normale volare in mezzo alle nuvole standosene seduti sopra ad un razzo… Eppure, per quei ragazzi era la cosa più naturale del mondo.
“D’altra parte, soltanto dei pazzi si sfiderebbero ad una partita di calcetto, con questo caldo, a quest’ora, rischiando la consegna per chissà quanto tempo.”
Ma nessuno avrebbe protestato. L’operazione Spring Flag, la grande esercitazione primaverile cui avevano partecipato tutte le principali aviazioni dell’UE, ed un paio di squadriglie caccia USA, si era conclusa da poche ore. Un successo, in qualche modo inatteso: squadriglie e stormi misti avevano operato senza incontrare le difficoltà linguistiche pronosticate dalle solite cassandre. I superiori erano contenti. Gli stati maggiori erano contenti. Ed anche il comandante Gennari era soddisfatto. E se quei ragazzi volevano sfogarsi giocando a pallone sulla pista di atterraggio illuminata a giorno dalle luci dei riflettori… beh, che facessero un po’ quel cavolo che volevano.
“La palla!” “Passa qui, imbecille!” “Brutto figlio di una capra polacca, dammi quella stramaledetta palla!” “Mangiarane, ma stai zitto ed impara da tua sorella a darla via!”
Probabilmente, il cappellano della base avrebbe avuto qualcosa da ridire – circa la terminologia applicata dai partecipati. In realtà, era a “bordo campo” insieme a Gennari – ed aveva l’impressione di divertirsi come un pazzo.
“Come procede la partita?” domandò il colonnello Ryan, il baffuto comandante delle unità britanniche, appena rientrato da una partita di poker con i parigrado.
“Cinque a quattro” rispose Gennari – faticosamente camuffando il sorriso ironico invariabilmente scatenato dal comparire del baffuto e very british volto del suddetto colonnello.
“Per chi?”
“Per noi, ovviamente!” sorrise Gennari. Avendo deciso di salutarsi con quella partita, i piloti si erano divisi in due squadre: da una parte, i “Vikings”, e dall’altra “The Terrons”. Ovverosia: da una parte tutti i nordici – tedeschi, britannici, austriaci, svedesi, norvegesi, olandesi e così via; dall’altra i mediterranei: spagnoli, greci, italiani, turchi, portoghesi – e francesi. Che avrebbero preferito giocare con i Vichinghi, e che da questi erano stati sdegnosamente rispediti insieme ai Terroni. Termine, questo, proposto dai piloti italiani e che, una volta chiaritone il significato ai compagni di ventura, era stato immediatamente approvato quale titolo per l’improvvisata squadra.
“GOOOOOOOOOOOL!”
“Mi correggo, signore… sei a quattro.”
Una bellissima rete – un colpo di testa in tuffo di Makiewikz, il centravanti dei Terrons. Alla sua terza segnatura.
“Ma quello non è polacco?” domandò Ryan, interdetto.
“Esattamente,” rispose Gennari. “Ma soprattutto è stato centravanti delle giovanili del Legia Varsavia… dovrebbe leggerle le schede dei nostri ragazzi!”
“Adesso ho capito”, mormorò Ryan aprendosi una birra – ovviamente tiepida, “perché ci tenevate tanto ad avere i polacchi in squadra… Jung, dannazione! Muovi quelle tue chiappe scozzesi oppure ti metto a pulire la carlinga del Typhoon per una settimana!”
Roy Jung, piegato in due dai crampi, sollevò il braccio destro verso il proprio comandante e con tutta la naturalezza di cui un uomo può essere capace, gli riservò il più british degli insulti non verbali. Ryan, flemmaticamente impietrito, pensò ad un errore – ma prima che potesse equivocare, la voce baritonale del suo miglior pilota lo invitò simpaticamente ed esplicitamente ad adempiere determinate funzioni organiche in un certo orifizio di una sua certa parente prossima – che qui è ovviamente meglio non nominare.
Gennari ed il cappellano Tomaszecivic esplosero nella più fragorosa risata di quella sera festosa: del resto, sapevano tutti che quando Jung si muove, certe cose sono sistematicamente dietro l’angolo.
“Jung! A questo punto o pareggi la partita o ti sbatto in cella per dieci giorni!”
“Tempo perso, colonnello…” ghignò Lopez-Vega, il caposquadriglia spagnolo, avvicinatosi all’improvvisata panchina per tirare un po’ il fiato – ed un paio di sorsi di birra, anzi di Cerveza “voi inglesi l’avrete anche inventato, il calcio – ma da un po’ di tempo avreste bisogno di qualche ripassino…”
“Ma come… adesso te lo faccio vedere io!” esclamò il colonnello, la flemma british ormai squagliata. Preda di una furia nutrita dall’alcol e sostenuta dall’orgoglio nazionale – gli potevano toccare la regina, la caccia alla volpe e le corse di Ascot, ma il calcio eh no, quello mai! – il baffuto colonnello si sollevò le maniche fin sopra ai gomiti, facendo lo stesso con i tubulari delle braghe.
“Carlinghton, vieni qui!” esclamò, rivolto al proprio pilota che, in quel frangente, si stava malamente disimpegnando come ala destra.
“Signore?”
“Ti ordino di uscire dal campo e di darmi le tue scarpe da ginnastica, perdiana!”
A quel “perdiana”, il comandante Gennari ed il cappellano si scoprirono abbracciati in una risata ancor più fragorosa e sguaiata di quella che l’aveva preceduta.
“Ma signore… ma è sicuro di quello che sta facendo? Alla sua età…”
Il colonnello diventò rosso come un peperone.
“Alla mia età il barone Matthews ricevette il pallone d’oro – alla mia età! Ed ora, passa qui e ti farò vedere perché mi chiamassero il Beckham con i baffi!”
L’immagine che quell’improvvida battuta dipinse nella mente del povero tenente gli tolse ogni voglia di resistere… cedute scarpe e ruolo al colonnello, s’accomodò in panchina.
“Su ragazzi! Dai Dai Dai! Adesso gliela facciamo vedere noi!”
“Sì! Sì! Facci vedere!” sogghignò Lopez-Vega, abbandonando la panchina e tornando in campo.
“Forza Colonnello Ryan! Facci sognare!” gridarono in coro gli spettatori. Il fatto che, fra questi tifosi improvvisati, ci fossero anche i compagni di squadra e di squadriglia dei rivali sfuggì all’orgoglio del colonnello, che subito si lanciò in partita petto in fuori e testa alta come ogni buon suddito di sua maestà britannica…
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