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Autore Topic: Ashes of the War: Volume 3: Rise from the Ashes  (Letto 2430 volte)
matte
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« il: 24 Aprile 2008, 23:35:32 »

questo topic, che prevedo un po' caotico, dovrà contenere tutti i contributi relativi alla terza ed ultima parte della prima fase dell'ultimate century, quella che va dal 2015 alla sconfitta finale di Kaswal von Deikun...

per iniziare, questo dovrebbe essere una specie di prologo...

(qui in pdf
http://www.megaupload.com/?d=AGHAWRLR
)
che ho infatti intitolato:


PROLOGO: A new beginning

xié xié e buona lettura













Mobile Suit Gundam: Ultimate Century

Ashes of the War - Volume 3

Rise from the Ashes (AD 2033 - 2035)

Prologo
A new beginning

Tante cose erano cambiate, e molte ancora sarebbero dovute cambiare, prima che il suo sogno diventasse realtà. Char Aznable aprì la visiera della maschera, e lasciò che la sottile, impercettibile atmosfera del pianeta sfiorasse il suo viso, fredda e sterile come sempre.
"Padre, la tua visiera!" esclamò Kristine - un grido soffocato dall'atmosfera troppo flebile e rarefatta, e che Char percepì soltanto grazie alle cuffie integrate nel proprio casco.
Char allungò il suo braccio grande e muscoloso, ed appoggiò la destra sulla spalla della ragazza, ben rinchiusa nella propria normal suit.
"Tranquilla, Kris..." le rispose, mostrando il proprio viso, libero all'abbraccio dell'atmosfera, una mascherina trasparente che avvolgeva naso e bocca, mescolando il vitale ossigeno all'azoto dell'atmosfera.
"Non sto correndo nessun rischio..." aggiunse, sorridendole sicuro come sempre.
"Non importa, padre..."
Kristine non riusciva a capire perché suo padre si ostinasse a correre dei rischi del genere. Come quella sua mania di pilotare caccia e mobile suit, nello spazio aperto!, senza indossare nessuna normal suit... alcuni lo chiamavano coraggio - ma per lei, cui Char era tutta la famiglia rimasta, la chiamava semplicemente stupidità. Il professor Hansen usava un altro termine... ah, sì: l'ultimo vagito della sua perduta giovinezza... Quando Char Aznable ancora si faceva chiamare Kaswal von Deikun, e copriva il suo nome ed il suo casato di onori e di gloria, combattendo in quell'infame macello che l'Umanità aveva pomposamente battezzato "Prima Guerra Coloniale".
"E va bene..." sospirò Char, e richiuse completamente il casco.
"Eppure," aggiunse - mentre il calore dell'aria ricircolata tornava a carezzare il suo viso, "eppure verrà un giorno in cui degli uomini come noi torneranno a camminare su queste colline, senz'altra protezione che i propri vestiti...
Kristine annuì. Erano passati quasi sessant'anni da quando l'Operazione Alberich aveva avuto inizio, e quel mondo roccioso e privo di vita aveva iniziato a rispondere alla drastica cura che gli scienziati del Reich, prima, e quelli della Federazione nel decennio seguente avevano avuto il coraggio di somministrare.
Nell'emisfero meridionale, in prossimità del circolo polare, alcuni crateri estinti erano colmi d'acqua - acqua libera!, e sulle loro caldere ormai spente campi verdi e giallastri ormai risalivano fino a sfiorarne i bordi e sfidare le desolate piane marziane. Pochi anni prima, anche la Vallis Marineris aveva ricevuto lo stesso trattamento... molto presto, una vena verde ed azzurra, riconoscibile anche dallo spazio, avrebbe solcato come una promessa di vita la perfetta sfera rossa del pianeta... un saluto, per quanti avessero deciso di rendere quella landa la propria nuova casa - una promessa che quella scelta non sarebbe stata vana, e che ad aspettarli non ci sarebbe stata una fragile cellula di metallo, piccola e vulnerabile come le colonie orbitali. Che, del resto, ormai avvolgevano anche la sfera marziana, colme di uomini e donne che solo il rigoroso piano di emigrazione federale tratteneva dal prendere dimora sulla superficie.
In fin dei conti, pensava Char, specie in giorni come quello, specie di fronte a panorami come quello, che dopotutto non era altro che la secolare missione della sua famiglia... Mille anni prima, un altro Kaswal, il suo più antico progenitore il cui nome fosse sfuggito all'oblio della storia, aveva ricevuto dal Gran Maestro dell'Ordine teutonico l'incarico di domare le paludi ed i deserti del Nord. Dove avevano regnato acquitrini e sterpaglie che la neve ricopriva di una coltre candida e silente, la sua famiglia aveva costruito strade e città, e creato campi che laboriosi contadini avevano reso capaci di sostentare una vita più che dignitosa... in fin dei conti, erano diversi i luoghi, erano diversi i tempi - ma la loro missione restava la stessa.
"Lo so, padre..."
Char le sorrise; si staccò da lei, e si sedette su una grossa pietra squadrata, poco lontana.
"Sai, avevo la tua età... più o meno, intendo, quando venni qui per la prima volta... La vedi quella piana poco lontana? Ai bordi di Cydonia? E' stato là che... combattei..."
Il flusso dei suoi ricordi lo travolse, e fermò le sue labbra. Là il cadetto Kaswal von Deikun aveva combattuto contro il cadetto Anavel Gato il più leggendario duello nella storia del pianeta rosso. L'uno contro l'altro, nello scontro che tutte le colonie ancora ricordavano, la memoria ricolma d'emozione. Sei anni prima, la Televisione Federale terrestre aveva deciso di trasmettere uno speciale, ricavato dalle originarie registrazioni del Reich... un successo strepitoso, che aveva contribuito a nutrire la leggenda dei due guerrieri: la Cometa Rossa ed il Cavaliere Bianco... E pensare che lui, Kaswal von Deikun, la Cometa Rossa, aveva da un bel pezzo dismesso il nome della sua gioventù, diventando - per tutti, persino per sua figlia, Char Aznable. Un ex-pilota del corpo speciale della Federazione Terrestre chiamato "Phantom Pain"...
"E' la che combattesti contro Gato, vero Papà?"
Char annuì. Quella era la sua sola debolezza: non amava parlare di Gato. Non in presenza di Kristine, quantomeno. Perché Kaswal von Deikun aveva una figlia, Elizabeth - ma di lei non aveva più saputo nulla da quasi quindici anni. E perché nelle vene di Kristine Aznable scorreva il sangue di Anavel Gato, il suo vero padre biologico.
E perché il Cavaliere Bianco, l'Incubo di Salomone, non era stato soltanto il suo grande rivale - ma era anche l'uomo che lui aveva più di ogni altro tradito. Tradimento che aveva portato all'estremo - uccidendolo con le sue stesse mani, e con quella medesima pistola che Char ostentava alla cintura, che - silenziosa, celata agli occhi del padre adottivo, l'ignara ragazza aveva tanto spesso carezzato, rinchiusa nel suo fodero di cuoio nero, e quindi accuratamente denudata, inconsapevolmente, incomprensibilmente attratta da quell'oggetto che pure il padre le aveva migliaia di volte intimato di non toccare...
"Sì, Kris...  là, poco lontano dalle montagne che i Terrestre credevano comporre la 'faccia di Marte'..."
Char sorrise: avessero saputo, gli ufulogi, che la mitica maschera non era nient'altro che un maldestro fotomontaggio, composto per celare le installazioni naziste!
Alieni provenienti dal Brandeburgo! Ecco cos'avrebbero trovato, se i loro governi gli avessero permesso di scoprire la Verità. O, almeno, una parte della verità...
"Un giorno o l'altro, mi ci devi portare..." sussurrò Kris porgendogli la mano: era ora di tornare.
"Te lo prometto, Kris... quando tutto sarà finito, ti ci porterò."
Un'ombra oscura e minacciosa velò i suoi occhi azzurri - perché, prima che quei giorni giungessero, c'era una missione che l'attendeva. Una grande missione, che solo lui - Char Aznable, ovverosia Kaswal von Deikun, ovverosia l'uomo che era entrambe le cose e nessuna delle due, avrebbe potuto portare a termine...

"Che assurdità!" esclamò l'ex generale Yehoshua Revil, fra un vigoroso colpo di tosse e l'altro.
"Che assurdità!," riprese non appena quell'accesso si fu placato, e la fame d'aria con quello: "per tutta la mia vita, non ho fatto altro che lottare con la bilancia ... ed ora se riuscissi a metter su un paio di chili, sarei un uomo felice..."
L'ex presidente della Federazione Terrestre Sean Miller non riuscì a trattenere un sofferto sorriso. Che realmente fossero diventati amici, loro due, era una bugia - molto probabilmente. Eppure... nel corso della lunga guerra, in quegli anni difficili e violenti, era nato qualcosa, fra di loro. Qualcosa che li aveva legati. E che ancora li legava, nonostante le armi fossero state deposte, e persino il ricordo della Grande Guerra cominciasse a sbiadire.
Ebbene: quello strano sentimento, che non era amicizia - non ancora, ma che a quella tanto s'avvicinava pugnalava continuamente il suo cuore ogni volta che i suoi occhi erano costretti a vedere Revil ridotto in quello stato.
Soltanto i suoi occhi conservavano l'energia del grande condottiero di un tempo: i capelli, un tempo neri come la pece, s'erano precocemente ingrigiti. Anche su di lui il tempo aveva imperversato - ma l'argento che gli anni avevano deposto sul suo capo dava al suo aspetto qualcosa di nobile e ieratico... ben diverso da quell'aria di lento e continuo morire che la carnagione giallognola, ed il corpo innaturalmente magro di Revil trasmettevano ai suoi sempre più rari visitatori.
"Non faresti meglio a farti ricoverare? Ho sentito dire che al Bethesda..."
"Ma per piacere!" esclamò Revil, accompagnando il suo sbottare con un gesto imperioso della mano, che per un attimo sembrò rivivere dell'antico ed indomabile vigore di quell'uomo.
"Non voglio morire in una camera di ospedale... mi sembra di avertelo detto un migliaio di volte!"
"E tua moglie? Cosa ne pensa di questa tua decisione?"
Seguì un imbarazzato silenzio: era stato un colpo basso, quello di Miller. E l'ex-generale non glielo nascose.
"Per favore, Sean, lascia Myrieem fuori da questa storia."
Miller fece un cenno con il capo: messaggio ricevuto.
"Sappiamo entrambi," riprese Revil con un refolo di voce, "che il momento arriverà molto presto... ed allora voglio essere qui, ad Haifa, nella mia terra, nella mia città, nella mia casa, nel mio letto... Sono le foglie verdi degli ulivi che io piantai, con queste mie mani al termine della guerra, sono quelle le ultime cose che voglio vedere, quando Yawhee mi chiamerà nel Seno di Abramo..."
Miller sorrise: "Sei molto rabbinico, Yehoshua, quando fai queste sparate... lo sai, vero?"
Allungando la mano verso un bicchiere colmo di una spremuta d'arancia ("gli anti-ossidanti! gli anti-ossidanti" gli ripeteva sua moglie, continuamente, simile ad un mantra... ed alla fine, almeno a quel nemico si era arreso!), Revil accennò ad un sorriso:
"Non dimenticarti che sono sempre il figlio del Rabbino... e che da lui non ho ereditato solo il pessimo carattere."
"Uh uh..." rispose l'ex-presidente: "mi ricordo benissimo la filippica che tirasti prima della battaglia di Salomon! Alla fine i nostri ragazzi erano così carichi che, gli avessimo detto di fare dietro-front, e di rinunciare alla battaglia, ci avrebbero fatti a pezzi!"
I ricordi della passata gioventù echeggiarono nella mente di Revil come una piacevole carezza, e per un attimo lo strapparono a quel presente fatto di dolore, fatica, e sofferenza...
"Non è ridicolo, Sean? Da giovani, abbiamo comandato eserciti che ogni giorno dilapidavano miliardi di dollari ... e presto morirò perché, trent'anni fa, i nostri predecessori non vollero investirne qualche milione nello sviluppo di nuovi farmaci contro la tubercolosi..."
Una triste verità, che però a qualcosa era servita - così, almeno, soleva illudersi Miller. Diffusasi la notizia della malattia di Revil, la ricerca medica contro la malaria, la tubercolosi, la lebbra... quelle malattie che il cieco mondo occidentale aveva imparato a dimenticare, aveva ricevuto immensi finanziamenti. Che quelle piaghe potessero essere finalmente cancellate, non era più un sogno affidato alla clemenza divina, ma una possibilità che risiedeva nelle mani dell'uomo. E che, probabilmente, loro stessi avrebbero potuto vedere con i loro occhi. Almeno Miller - perché i giorni di Revil, ed egli lo sapevano, erano come la rugiada che svapora... come la sabbia fra le mani, e presto sarebbero sfuggiti via, per sempre.
"Beh, non ci vediamo da un pezzo, e non mi racconti proprio niente...?" gli chiese l'ex-generale, deponendo il succo di frutta sul tavolino in legno intersiato - un ricordo di giorni più lieti, e dell'euforico periodo post-bellico. Un regalo di Re Abdallah di Giordania, nientemeno. "Tu, almeno, il mondo puoi continuare a vederlo con i tuoi occhi..."
"E, per i miei gusti, ne vedo pure troppo..." sospirò Miller, cui la fine della presidenza federale non aveva portato la pace tanto sognata.
"Torno adesso dalle colonie..."
"Lo so..."
Miller allibì: come faceva a ...
"Quelle scarpe, le vendono solo a Granada... me ne ha portato un paio mia moglie, un annetto fa..."
Sempre il solito generale... occhi aguzzi come quelli di una volpe. Come di volpe erano state le sue imprese, anche se all'occorrenza aveva saputo svelare le zanne e gli artigli del leone.
"Beh, che hai visto sulle colonie?"
La porta della stanza si aprì, e l'aria profumata del giardino e delle rose in fiore penetrò, annunciando la signora Revil, Myrieem, in braccio un cesto carico della frutta appena colta. Nonostante gli anni, i suoi capelli scuri non sembravano cedere all'impietoso avanzare dell'età, così come bellissimi e scintillanti restavano i suoi occhi. C'era, in lei, una bellezza che avrebbe continuato a brillare finché in quel corpo fosse esistita una fiammella di vita.
"Dritta dall'albero..." disse, porgendo all'ospite una mela tanto succosa quanto aride le colline che si sporgevano all'orizzonte.
"Lei mi vizia, signora... ogni volta che passo da casa sua, mia moglie controlla che non abbia messo su troppi chili!"
Myrieem sorrise: "La signora Rose è ancora maniaca del fitness?"
"Altroché! Mi ha fatto installare in casa una di quelle cose... come si chiamano? Cardiofitness o non cosa... beh, comunque sia non importa: ho rinunciato a litigare con lei una decina di anni fa!"
"Ah, le donne..." commentò Revil, il cui velato misantropismo era leggendario quanto la sua capacità di cogliere le debolezze del nemico al primo sguardo.
"E smettila, Yosh... o stasera ti faccio lavare i piatti!"
"Non lo faresti mai... sei troppo vulnerabile al tuo istinto da crocerossina! Ma siediti anche tu, tesoro... così almeno la smettiamo di fare discorsi da maschiacci...!"
"Tu che discuti di calcio, donne e motori? Non ci crederei nemmeno se me lo giurassi sulla Torah!"
"E se te lo giurassi sul Corano?"
"Allora sarei sicura che si tratta di una balla..." scherzò la moglie di Revil, abbandonandosi alla poltrona.
"Seriamente," riprese la donna, "di che stavate parlando?"
"Parlavamo del mio ultimo viaggio nelle colonie..." fece Miller, soffocando le risate risvegliate da quel battibeccare.
"E' stato sulla Luna?"
"Sulla Luna - a Granada, a Von Braun City... sulle Colonie di Side 2, Side 3 e Side 6... e su MARTE"



Nemico identificato ad ore 12, cadetto Rey!”
“Pronto all'attacco, cadetto Bright!”
“Allora, al mio via ... 3... 2... 1... VIA”
I due giovani balzarono fuori dai cespugli nei quali si erano nascosti e, veloci come un fulmine, lanciarono i due gavettoni colorati contro i malcapitati Sean e Mark Sheedan, i quali – prima di capire cosa fosse realmente successo, si trovarono fradici d'acqua, scappando via, piagnucolanti.
I due ragazzi, esultanti, si scambiarono un cinque giubilanti per il successo della loro Blitzkrieg, che aveva colto di sorpresa ed inermi i due fratelli Sheedan, obbligandoli alla ritirata. E così nemmeno si accorsero delle due ombre minacciose che, così come loro stessi un istante prima, apparvero dal nulla.
“Kaswal Thomas Rey!”
“Hattaway Bright!”
Il nemico più terribile ed implacabile che potesse sbarrar loro la strada del trionfo, e che doveva richiamare l'uno e l'altro sulla Terra, a confrontarsi con le conseguenze di quella loro ultima bravata: le loro madri.
I capelli biondissimi, lunghi e raffinati come un filo d'oro, arruffati dall'accesso di rabbia, la splendida trentacinquenne Seyra Mass afferrò per l'orecchio il proprio pestifero erede, immediatamente imitata dalla più minuta – ma non meno battagliera, Mirai Bright, nata Shima, genitrice dell'altro malfattore.
“Was hab'ich dir immmer gesagt...!?” disse Seyra, in quel suo tedesco dal rigoroso e musicale accento nordico, non celando l'accesso di nervosismo che il comportamento dell'improvvido erede aveva risvegliato.
“Scusa mamma, scusa...!”
“Auf Deutsch!”
Il padiglione arrossato dalla vigorosa presa materna, e dolente come una pugnalata nella carne viva, il ragazzo si piegò sulle ginocchia, e si contorse cercando di sottrarsi alla presa – senza riuscirci.
“Bitte, Mutti... Entschuldigung!”
 “Hol's wieder!”
Il ragazzo si arrese, e gridò con tutta la sua voce ancora alta e squillante: “VERZEIUNG!!!”
Soltanto allora, il colonnello Mass abbandonò la presa sul ragazzo – senza che sul suo viso si dipingesse qualcosa di simile ad un'ombra di soddisfazione.
“E tu, non dici niente, Hattaway?”
Perché il ragazzo dai corti capelli neri e folti, dagli occhi piccoli, sottili ed intelligenti, ostinatamente non emetteva un solo lamento. Il viso contorto dal dolore, il torso piegato in una posa innaturale, ostinatamente resisteva.
“Dai, lascialo Mirai...”
“Non finché non chiede scusa... I ragazzi sanno che non vogliamo giochino alla guerra!”
Un istante dopo, anche Mirai- in realtà, lasciò la presa. Perché nessuna madre imporrebbe al proprio figlio sofferenza, e la signora Bright non faceva eccezione.
“Per questa volta, la chiudiamo qui... ma se ti vedo un'altra volta...”
“E lo stesso vale anche per te, Kaswal Thomas...”
“Ti prego, mamma... KT!”
“Va bene, Kaswal Thomas...”

“Ah ah...” sorrise Amuro, appoggiando il drink sul tavolino interposto fra lui ed il suo antico capitano, Noah Bright. Nonostante l'interscambio degli ultimi quindici anni, durante i quali Seyra era faticosamente riuscita a trasmettergli qualcosa del suo ordine e dell'altrettanto prussiano rigore, resisteva in Amuro un tenace frammento del suo ribelle disgusto per ogni forma di autorità, riconosciuta o meno... e vedere un germe di quel suo spirito ribelle agitarsi nella propria prole, beh, non gli spiaceva – non del tutto, almeno.
“Noto che gli anni passano, ma le cose non cambiano...” sospirò Bright, sorseggiando il suo Martini.
“Intendi dire...?”
“Intendo dire che ci copriamo di titoli ed allori, ma a comandare sono sempre loro...”
Quelle parole risvegliarono ricordi mai sopiti, e l'imperioso cipiglio del primo Bright. Che proprio lui, il tiranno della White Base, cedesse le armi ...
“... significa solo una cosa, amico mio: che stiamo invecchiando.”
“Parla per te!” rispose l'ex-comandante, fingendosi più stizzito di quanto non fosse realmente.
“Parlo per tutti, Noah... Quindici anni non sono passati soltanto per i nostri figli. Ma anche per noi...”
Bright si appoggiò al tavolino con un gomito, e si guardò intorno. Quant'aveva ragione, Amuro! Quindici anni prima, un gruppo di ragazzi era stato riunito dal destino, e costretto a condividere la medesima sorte, fino all'ultimo, drammatico atto. Molti di loro erano morti... e soltanto per loro il tempo si era fermato. Come Kira, con quel suo viso da bambino, squarciato in due dall'esplosione di una conduttura. Come Sandor, il cui perenne sorriso soltanto la morte aveva saputo cancellare, insieme al resto del suo viso, carbonizzato da una fuga di gas alta temperatura. Per tutti gli altri, il tempo era passato. Ed i ragazzi erano diventati uomini e donne. Uomini e donne che erano diventati padri e madri, i cui figli – una parte almeno, correvano fra i tavolini di quel party, fra i prati che circondavano il buffet, e nel boschetto che avvolgeva tutta quell'ala della tenuta di famiglia dei Bright.
E proprio guardando quei giovani, quella loro vivente ribellione alla morte ed alle sue leggi, Amuro sentì una stretta al cuore, perché gli ricordava quanta parte della loro esistenza gli fosse stata strappata. Perché, nonostante lo scorrere degli anni, nessuno ancora toccava la fatidica soglia degli quaranta. Perché il loro era stato l'equipaggio più giovane di tutta la guerra...
“Smettila di guardarti intorno con quell'aria da filosofo... che stai malinconicheggiando?”
“Uh... scusami Noah... mi ero perso nei miei soliti pensieri...”
Noah annuì, e s'accostò al vecchio commilitone. Accostando il bicchiere alle labbra, quasi volesse celarle ad occhi troppo curiosi e compagni troppo indiscreti, Noah sussurrò ad Amuro ciò che lo tormentava da diversi giorni: era il primo, con cui condividesse quel peso.
“Hai sentito di Santiago?”
Quello annuì, e sollevò la destra liberando tre dita: era il terzo, Santiago, a morire per un tumore del polmone. Il terzo, in meno di due anni – tutti e tre, addetti dalla sala macchine.
“Comincio a preoccuparmi...” balbettò Bright, cercando con lo sguardo la moglie ed il figlio, che lentamente stavano tornando verso il grande spiazzo della festa.
“Ho parlato con Wakkein e Synapse di questa faccenda... i macchinisti dell'Albion e della Pegasus sono sani come ...”
“Sì, come un pesce... A parte quello cui è esplosa in faccia la pentola a pressione della moglie... mi sono già informato.”
“Sorprendente,” si sforzò di sorridere Amuro, “per un pensionato... dovrei denunciarti, lo sai?”
“Non scherzare, Amuro...” esclamò l'altro: “il 3 nella sigla progressiva della White Base non era messo per caso: dopo il 15 Aprile, la completarono in fretta e furia... e soprattutto, non hanno operato per tre mesi con il reattore fracassato e spinto sempre in overdrive... forse avremmo fatto meglio ad evacuare la nave...”
Amuro lo folgorò con lo sguardo: “Stai scherzando, spero! Avessimo abbandonato la White Base, sai benissimo cosa ne sarebbe stato di noi: ci avrebbero ammazzati tutti...”
“Mah...”
“Te lo dico in un altro modo, Noah: non fosse stato per te e per quella tua testa dura da Texano, saremmo morti tutti... tanto tempo fa. E molto prima dell'Afghanistan. Anzi, in Afghanistan non ci saremmo nemmeno arrivati.”
Bright annuì, tutt'altro che convinto. I compagni morti durante la guerra, lui li sentiva come propria colpa. E gli anni non avevano lenito il dolore, che un improvviso e sfuggente ricordo, elicitato chissà come, chissà perché, sempre risvegliava in lui ogni volta che quei visi e quei nomi emergevano dal subconscio in cui li aveva forzatamente rinchiusi. E quelle ultime morti non soltanto si sommavano al passato, ma raddoppiavano, triplicavano,  il peso della responsabilità.
“Parlando d'altro... è vero che Artesia ha deciso di lasciare l'esercito?”
Amuro annuì: “Sì. Ha sostenuto il corso per ufficiale di polizia scientifica, e l'ha superato a pieni voti...”
“Non ne dubitavo... ma realmente vuole diventare uno sbirro?”
A quella domanda, rispose con una scrollata di spalle, dietro la quale si celavano infiniti discorsi, e litigi, nei mesi passati, subito dopo l'abilitazione, ed in quelli precedenti.
“Si è stufata della divisa...” borbottò, ma quella bugia era troppo grande e strisciante: almeno a lui, a Bright, avrebbe detto la verità.
“No, non è vero Noah... non si è stufata della divisa, ma ...”
“Ma?”
Rispose con un sofferto sospiro: “Suo figlio...”
“Ah!” esclamò Bright, e non aggiunse altro. Il primogenito di Artesia, concepito da lei ancora bambina, frutto di una squallida violenza che Kaswal aveva vendicato nel sangue, e che il Reich, a scanso di equivoci, aveva fatto sparire non appena venuto al mondo. Erano passati vent'anni, ormai, e dopo le guerre ed i torbidi che le avevano seguite, nulla suggeriva – nulla!, che quell'innocente fosse ancora vivo. Eppure Seyra, ostinatamente, ossessivamente, pensava... no: SAPEVA che quel suo primogenito fosse ancora vivo. Contro ogni buonsenso, ella convinta che prima o poi l'avrebbe ritrovato, ed aveva ripetuto come un mantra quelle sue certezze, anche quando, a conflitto finito, Revil in persona aveva impiegato tutta la propria autorità e prodotto un buco nell'acqua. E consigliato di rassegnarsi...
Ma come convincere Seyra, che ogni sera fissava la luna, e con i suoi occhi tristi e scintillanti inseguiva le luci delle colonie, sussurrando al figlio sconosciuto la buona notte, ed una silenziosa benedizione...?
“E se scoprisse che...”
“Lo sai: c'è chi preferisce l'incertezza... non sapere, e nell'ignoranza nutrire una speranza, anche se debole. Non Artesia von Deikun...”
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matte
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« Risposta #1 il: 24 Aprile 2008, 23:44:02 »

e qui, per la gioia di marina, la versione pdf

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