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Autore Topic: AotW: episodio speciale IV - von Reuenthal  (Letto 2265 volte)
matte
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« il: 10 Aprile 2008, 23:53:02 »

PRIMA PARTE


I due occhi spaiati di Klaus von Reuenthal fissavano la perfetta superficie dello specchio, esausti. Soprattutto in quelle circostanze il diverso colore delle due iridi diventava più evidente, anche se nessuno riusciva a capire se fosse il ceruleo occhio destro schiarirsi, o l'ombra che sempre si celava dietro il sinistro si facesse più forte ed accesa, e con quella la sua tinta più scura.
Sul suo Personalausweiss, in effetti, era indicato “colore: arrurro (occhio destro), verde (occhio sinistro)”: tuttavia, tanta certezza quanto l'anonimo ufficiale dell'anagrafe, pedissequamente seguito dall'annoiato medico militare che aveva ribadito la sua pratica all'ingresso nella Luftwaffe, il giovane Hauptmann non l'aveva mai avuta. Ridicolo, forse, ma a ventidue anni Klaus von Reuenthal non avrebbe saputo dire realmente di che colore fossero i suoi occhi.
Che fossero diversi: questa l'unica certezza. Difatti, Klaus Dieter Lohengrin, Graf von Reuenthal – per tralasciare gli altri sei o sette nomi e cognomi che la sua famiglia gli aveva tramandato, era per tutti “Occhi Spaiati von Reuenthal”. Tutto qui.  E forse la gente, colpita da quella curiosa differenza, non sentiva la necessità di andare oltre – e di chiedersi effettivamente di che colore quegli occhi fossero. Lui stesso non ne aveva mai sentito il bisogno – e questo, ci pensava spesso, era forse più grave.
Assorto in quei pensieri, fu interrotto dallo squillare del suo telefono. Rispetto ai colleghi, le cui barocche, altisonanti suonerie von Reuenthal trovava involontariamente comiche, il giovane conte aveva impostato un dimesso jingle, di quelli che sulla Terra erano andati di moda negli anni '90. E che erano stati la norma, sul Reich, fino a pochi mesi prima – quando l'euforia delle conquiste non aveva ancora dato alla testa a troppa gente.
Completamente nudo, ed ancora umido della doccia appena presa, von Reuenthal afferrò il telefono e controllò chi osasse chiamarlo alle 6 del mattino del suo primo giorno di licenza. Il numero non gli diceva nulla. Tentato di chiudere la linea, e di spegnere il telefono, fece esattamente il contrario – e rispose. Con il suo pesante accento prussiano sassone, eredità dei suoi genitori, domandò chi fosse dall'altra parte della linea.
“Klansi, è questo il modo di rispondere agli amici?” gli rispose una voce che, per quanto deformata dalla linea telefonica, e dai disturbi che la solcavano – dall'inizio della guerra, le comunicazioni non erano mai state semplici, von Reuenthal non faticò ad identificare. E come avrebbe potuto? Perché quell'uomo non era un semplice commilitone – ma l'Hauptmann Heel: non soltanto l'uomo che occupava le prime pagine di tutti i giornali della Wehrmacht, ma anche il suo migliore amico.
“Kaspar! Quando siete rientrati?”
“Ieri sera, vecchio mio... esattamente ieri sera. Ho appena depositato il mio rapporto, e sua eccellenza Cecilia Zabi mi ha suggerito... beh, diciamo che mi ha ordinato una licenza di sette giorni.”
“Giusto il tempo per finire le riparazioni sulla Wallenstein, giusto?”
L'altro rise, sommessamente – ma con sincero gusto.
“Sì, esatto... quei bastardi... ma perché ne parliamo per telefono? Dove sei adesso, vecchio rubacuori?”
“Hamburg... proprio sopra Jungfernstieg...”
Heel rise di nuovo.
“Non si può dire che la Luftwaffe badi a spese... Ascolta: io adesso sono a Berlino. Dammi – diciamo, tre ore di macchina e sono da te.”
Von Reuenthal scrutò il grigio cielo di Hamburg, e le grandi nuvole che correvano sopra di esso incrociandosi, sfiorandosi, continuamente mescolandosi, veloci come i pensieri, mentre una pioggerllina fine e malinconica sfiorava le finestre delle case, battendo su di esse con il lento ticchettio di quell'autunno inoltrato, che sulle sponde dell'Elba già suonava di un freddo e rigido inverno.
“Lascia perdere... no, ascolta: che ne dici se, invece di vederci qui, ci incrociamo ... beh, non proprio a metà strada, ma quasi. Hai sentito parlare di Travemunde?”
“Non ho avuto la tua fortuna di vivere sulla Terra prima del conflitto – ma ho un ottimo autista. Pranzo a ... come hai detto che si chiama? Travemunde, giusto?”

I gabbiani cantavano con la loro voce rauca e sgraziata, mentre i bambini correvano sull'infinita lingua grigiastra dello strand, quella spiaggia infinita e sospesa fra il sogno e la realtà che collegava Travemunde e gli acquitrini della Pomerania alla perfetta distesa della Danimarca. Aggrappato al parapetto di freddo ed umido acciaio della spianata che sovrastava la spiaggia ed il porticciolo, Kaspar Heel osservava le piccole imbarcazioni da diporto, con le loro vele candide e triangolari, sfruttare la corrente del Trave – il fiume che aveva creato quel placido estuario, e quindi gettarsi sulla piatta distesa del Baltico.
Proprio sotto di lui, i piedi che sprofondavano nella grigia, fragile sabbia della spiaggia, i bambini correvano lanciando nel vento i loro aquiloni rossi ed azzurri, che il la brezza marina sollevava verso il cielo, donando loro un illusorio afflato di vita.
Lo stesso freddo vento penetrava nelle aperture dell'impermeabile kaki del giovane comandante, la cui silhouette spettralmente sottile veniva deformata e gonfiata da quel subdolo soffiare fra le pieghe degli abiti.
“Ma come fa Kaswal ad indossare sempre gli occhiali da sole?” pensò Kaspar, mentre il pallido sole del Nord sfiorava i suoi occhi, ricordando che – nonostante tutto, fosse mezzogiorno passato.
Reuenthal l'avea chiamato pochi minuti prima. A dispetto delle sue previsioni, non soltanto uscire da Hamburg, e soprattutto dai suoi disastrati sobborghi, ma tutto il percorso attraverso il campo di battaglia dello Schleswig-Holstein si era rivelato un incubo. Era in ritardo, e se ne scusava – ma nulla gli avrebbe impedito di ritrovare il caro, vecchio amico. Il quale, dal canto suo, lo avrebbe aspettato anche fino a tarda sera, anche solo per stringergli la mano per un istante fugace...
Non ce ne fu bisogno.
Pochi minuti dopo, ed ancora l'eco di quel pensiero non si era spento, che la voce di von Reuenthal esplose alle sue spalle.
Anch'egli era in borghese, ed indossava un lungo soprabito nero di ottima fattura – un pezzo di alta sartoria italiana, si sarebbe detto. Era molto dimagrito, dall'ultima volta – e non soltanto le guance scavate, ma anche lo stringersi della cintura intorno ai suoi fianchi testimoniavano quanto più asciutto si fosse fatto il suo corpo. Curioso, considerando che – a quanto ne sapeva, la prolungata presenza sulla Terra aveva sortito l'effetto opposto in tutti gli altri alti ufficiali. Gihren Zabi compreso.
“Sangue del diavolo, amico mio... ma che ti è successo? Sei più magro di uno spettro!”
Von Reuenthal non era mai stato né grasso né realmente corpulento – sebbene non avesse mai sfiorato nemmeno la sottilissima stazza dell'amico. In quelle condizioni, si sarebbero potuti scambiare gli abiti, e nessuno si sarebbe accorto della differenza.
“Ah, non ti preoccupare ... sono gli ultimi preparativi : praticamente, non trovo più il tempo nemmeno per mangiare!”
“Allora,” commentò l'amico stringendogli la mano, ed intanto abbracciandolo, “non credo rifiuterai un invito ad una Bäckerei che ho visto poco lontano da qui... basta il profumo che esce dai loro bancali a mettere fame.”

La Bäckerei era ancora molto fornita, nonostante la guerra. In effetti, ad un anno e mezzo dall'inizio delle ostilità, le sofferenze della popolazione – soprattutto, della popolazione tedesca, erano state ridotte al minimo indispensabile. Merito di Cecilia Zabi, più che di Gihren. Mentre questo si preoccupava che preziosi SP si dedicassero alla costruzione della sua capitale, sventrando e snaturando Berlino, oppure ricostruissero i Fori Imperiali per chissà quale misterioso scopo, la eiserne Frau si era premurata che i generi di prima necessità – e non solo quelli, non scarseggiassero mai, per nessun motivo – quantomeno in Europa, soprattutto in Germania. Forse anche per quel motivo i movimenti partigiani ancora si contavano sulle dita di una mano.
Seduti ad un tavolino, i due aspettavano pazientemente che i loro ordinativi venissero consegnati – qualche minuto di pazienza, aveva chiesto la biondissima cameriera. Intanto, l'uno e l'altro cercavano lo spunto per iniziare a raccontarsi gli ultimi mesi, non sapendo da che parte cominciare.
“Allora, Kaspar,” si lanciò Klaus, “come ci si sente ad essere sulle prime pagine del giornale della Deutsche Wehrmacht?”
Heel svelò i suoi denti candidi come la neve: “Molto bene... almeno, finché non inizieranno a riconoscermi, e fermarmi per la strada. A quanto pare, questi benedetti giornali siamo in due o tre a leggerli... Gihren e Dozel Zabi compresi.”
Klaus trattenne faticosamente l'esplodere di una sincera, dimessa risata: “Moderazione, Hauptmann Heel, o qualcuno potrebbe imputarla per psicoreato...”
“Lasci perdere queste minacce, Hauptmann von Reuenthal, o svelerò al mondo le sue caricature della famiglia Zabi...”
In quella, il grembiule rosso e svolazzante della cameriera, ed il suo largo vassoio annunciarono l'arrivo del caffé. I due s'interruppero, conservando per sé stessi l'ilarità di quel loro reciproco prendersi in giro: nessuno dei due desiderava che la loro identità di soldati del Reich venisse svelata. Nemmeno per errore.
“Grazie, signorina...” sorrise von Reuenthal, consegnando una lauta mancia.
Gli occhi della ragazza scintillarono, e con una voce cristallina e molto più giovanile di quanto realmente sembrasse, annunciò che il resto dell'ordinazione sarebbe arrivato a breve. Quindi se ne andò, e tornò all'interno della caffetteria.
“Hai già prenotato la camera d'albergo?” scherzò Heel, ma fino ad un certo punto. Le capacità seduttive di Klaus erano leggendarie sin dai tempi dell'accademia – quando, oltre al suo più celebre soprannome di “occhi spaiati”, aveva iniziato a circolare un altro ed assai più colorito nomignolo.
“Mi stai sfidando?”
“No, Klaus – ma vorrei ti rendessi conto che quella è una ragazzina. Avrà diciassette anni a dir tanto. In borghese, ma restiamo pur sempre degli ufficiali dell'esercito del Reich...”
“Errore, amico mio. Tu, in quanto comandante della Schutzpanzerträger Einz Graf von Wallenstein sei a tutti gli effetti membro delle Waffen-SS... ed in quanto a me, io sono tuttora a libro paga della Luftwaffe. Di Stahlhelm, qui nemmeno l'ombra...”
“Ssst!!! Vuoi farci scoprire?”
“Ma lascia perdere... qui nessuno sta pensando a noi. E' una domenica mattina, e tutti stanno pensando agli affari loro.”
In effetti, quel pensiero  aveva volteggiato nella mente di Heel per diversi minuti, prima che Klaus gli desse compiuta forma e consistenza. L'aveva notato dall'inizio... le barche, gli aquiloni... Possibile che tutto ciò fosse vero? Che realmente fosse in atto una guerra?
Ed era quello il normale modo di vivere degli uomini, sulla Terra?
“Tornando a noi... visto che la metti così... cosa mi racconti della tua recente esperienza in Nord America? A quanto ho sentito, prossimamente sua eccellenza il Führer Gihren Zabi vuole organizzare un gran ballo in vostro onore.”
Heel si scurì in volto.
“Io vorrei sapere cosa ti abbiano raccontato – e che voci abbiano messo in giro. Non sei il primo che dice qualcosa del genere. La verità, amico mio, è che New York si è conclusa in un disastro... un disastro, ecco tutto.”
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