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Autore Topic: Ultimate Century: AUC 2207  (Letto 2504 volte)
matte
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« il: 02 Gennaio 2008, 12:07:09 »

機動戦士ガンダム
AUC2207


Premessa. Quello che segue vorrebbe essere il progetto principale dell’Ultimate Century per il 2008. Ciò non significa che i progetti già iniziati - e magari abbandonati da un bel pezzo, restino abbandonati chissà fino a quando, se non per sempre. Affatto. Tuttavia, il soggetto che vedrete qui trattato mi ha particolarmente convinto, convincendomi a dedicargli un po’ di tempo. Vigono le solite considerazioni, ed il solito invito: se vi piace, siete benvenuti ed invitati a collaborare secondo le vostre possibilità. Frattanto, buona lettura a tutti!


Capitolo 1. The City in the Sky

“Io non mi fido di quella gente”, esclamò il primo tribuno Paolo Corvino schiacciando la sua ultima sigaretta sotto lo stivale.
Nascosto sotto i suoi voluminosi occhiali da sole, Dìghenis sorrideva. Nonostante suo fratello, il vescovo di Ippona, avesse dedicato alla fiducia uno dei suoi più celebri trattati, Paolo non fidava nemmeno della propria ombra.
“Calma, Paolo: ricordati perché siamo qui...”
Il ventenne figlio del governatore Corvino non aveva certo dimenticato perché il Prefetto Saulo avesse dispacciato l’intera guardia pretoria: per i tre giorni successivi, Gerusalemme sarebbe stata il centro politico del mondo, nonché il bersaglio privilegiato per qualsiasi terrorista.
Paolo aprì l’abitacolo, ed il violento abbraccio del sole gli sferzò la fronte e gli occhi azzurri. Ai loro piedi, un chilometro più in basso, la spianata che il genio aveva accuratamente predisposto durante la notte: i governatori di tutto l’Oriente erano già schierati, in pompa magna, con il loro interminabile codazzo di sottoposti, servi ed attendenti. Per non parlare dei rappresentanti delle due Chiese: da una parte, i Latini - con i loro abiti candidi ed i mantelli colorati, rossi e verdi. E dall’altra parte i Greci, con le loro vesti imponenti, nere e dorate. Mancavano ancora i rispettivi patriarchi: quello d’Occidente era già nella grande Basilica della Santa Croce, in attesa della processione che lì sarebbe giunta nel giro di un paio d’ore. Quello d’Oriente, per parte sua, sarebbe disceso dalla navetta insieme al suo “padrone”, il re degli Slavi, ed autoproclamato imperatore d’Oriente.   Una scelta strategica, non sopportandosi i due religiosi, e da parecchio tempo. In altri tempi, si sarebbero scomunicati a vicenda una decina di anni prima - ma l’era delle reciproche scomuniche s’era spenta da tre secoli, o forse prima. Comunque sia, Paolo VII, Presidente del Concilio dei Patriarchi ed arcivescovo di Roma, ed Alessio XIII, Patriarca della Moscovia, non si sarebbero incontrati che a cerimonie concluse - in tempo per non fare danni, o non crearne troppi.
“Le braghette sono già qui?” domandò, voltandosi verso l’armatura mobile del proprio compagno. Dìghenis ne sapeva quanto il compagno: non avevano ricevuta nessuna comunicazione in proposito. Dei Persiani nessuna traccia - non ancora.
“Mi domando cosa sia passato per la testa dell’Imperatore...” sospirò Paolo, richiudendosi nell’abitacolo corazzato del suo MFP-08 Cerberus, l’armatura mobile ad alte prestazioni appositamente progettata per la guardia pretoria.
“Dovresti saperlo,” ribatté Dìghenis, un occhio fisso sul panorama, l’altro sul comunicatore: l’ultimo segnale risaliva a mezz’ora prima, annunciando - genericamente, l’ormai prossimo arrivo delle delegazioni.
“Dopo essersi insultati a vicenda per dieci anni, hanno scoperto che il Figlio del Cielo sta sulle palle ad entrambi più di quanto non si odino a vicenda. La Festa della Santa Croce è caduta a proposito... A proposito: ho qualcosa sul radar.”
“Sono loro?”
Dìghenis controllò rapidamente l’identificatore di segnale: sì, era il trasporto dei Persiani. Come previsto, i primi ad arrivare.
“Dai che si comincia... Mettiamoci in posizione.”
Paolo sospirò, ed accese tutti i comandi del computer di combattimento: lo spettacolo stava per cominciare.

Apparve come un lontano scintillare, all’orizzonte. Lentamente, discese dalle nubi e con la leggerezza di una piuma si fermò a mezz’aria sulla grande spianata. La folla, immensa, raccoltasi ai lati della spianata fissava il cielo, ammirando il grande trasporto a forma di delta, scintillante nel suo oro ed azzurro, immobile - in attesa che due armature mobili persiane emergessero dal suo ventre, e discendessero a terra possenti e minacciose come le antiche statue degli dèi dell’Asia.
“Non badano a spese...” mormorò Dìghenis, osservando i due KA09 Tabriz, con i loro colossali cannoni mitragliatori da 195 millimetri e la scintillante bandoliera integrata nell’avambraccio. Gli ornamenti dorati dell’elmo e delle spalliere - decorazioni da parata, senz’altro, ma comunque di gran valore, li qualificavano come membri della leggendaria guardia scelta del Re dei Re.
“Due Immortali...” mormorò Paolo fra i denti, “La cosa comincia a non piacermi”
Dìghenis sospirò nel microfono: era prevedibile che in quella corsa all’immagine gli imperatori mettessero in scena il massimo in loro possesso. I Tabriz facevano il paio con i Cerberus della Guardia Pretoria: tutto qui. Anzi: considerando le abitudini dei Persiani, il Re dei Re era stato sorprendentemente parco di sceneggiate. L’ultima volta che il Grande Re aveva messo piedi in territorio romano - vent’anni prima, s’era fatto precedere da un corteo degno del Martedì Grasso, e lungo un chilometro e mezzo. Erano entrati a Costantinopoli gettando monete d’oro alla folla - a badilate. Dìghenis era troppo giovane per ricordarsi di quell’ultima visita ufficiale, precedente l’ultima degenerazione dei rispettivi rapporti, ma suo padre ne parlava spesso - più che altro, dei tumulti scoppiati fra la folla, in realtà più interessata a fare incetta di darici che dalla visita in sé. Erano diventati leggendari, ed ammantavano il ricordo di quell’ultima visita di stato di un’aura imbarazzante, che la polizia metropolitana di Costantinopoli non era mai riuscita a cancellare - non completamente. Fortunatamente, tutto ciò non si sarebbe ripetuto - non quella volta.

L’aereo persiano calò lentamente sulla spianata, simile ad una scintillante freccia d’oro. Non appena il propulsore si fu spento, dalla prua emerse una scaletta. Veloci come il vento, dodici guardie, nei loro abiti bianchi ed oro, nei loro mantelli scintillanti, discesero a terra, disponendosi a formare un corridoio rivolto verso il palco delle autorità: altri Immortali. All’unisono, estrassero le lunghe spade azzurrognole, intrecciandole sulle loro teste: il corridoio d’onore, segno che lo Shahnanshash non avrebbe tardato. Un istante dopo, due servi emersero dal ventre dell’aereo, srotolando di fronte a sé un grande tappeto rosso scarlatto, che distesero lungo tutto il corridoio delle spade.
“Eccolo, il re delle braghette...”
Come prevedibile, il Grande Re non si fece desiderare. Emerse dal suo aereo scintillante di tutto l’oro e di tutto l’argento che, fedele alla tradizione dei suoi avi, impreziosivano abiti e mantello, persino le scarpe ed il grande copricapo che lo qualificava quale sommo sacerdote del dio Ahura Mazda.
Altissimo, Dario VII sovrastava buona parte della propria guardia, degno erede della dinastia Samaride, i gloriosi guerrieri che, nel corso del diciassettesimo secolo, avevano riconquistato la patria iranica alle armi slave.
“Speriamo che Tiberio si sia messo i tacchi...” ghignò Paolo, senza pensare che qualcuno potesse ascoltarlo.
“Voi due, si può sapere cosa state combinando?”
Ascoltando la voce di Bardas Foca, il primo tribuno divenne bianco come un cencio.
“Invece di chiacchierare, non dovreste controllare la zona?”
“Sissignore, generale Foca!” esclamarono, all’unisono.
Non videro, ovviamente, il divertito sorriso che la loro goffa risposta dipinse sul glorioso comandante delle armi romane, un uomo del quale tutto si sapeva - fuorché amasse i lazzi e gli scherzi. Chiudendo il contatto del microfono, il generale si sollevò dalla console di comando e, con il suo sguardo torvo e poderoso, puntò uno per uno tutti gli occupanti del centro di comando: “Se scopro che qualcuno di voi dice di avermi visto ridere... Ci siamo intesi?”
Annuirono tutti, terrorizzati dalla silenziosa minaccia di un uomo la cui severità era leggendaria quanto la sua energia ed il suo inesauribile vigore. E continuarono ad annuire mentre il grigio e possente generale usciva dalla penombra della stanza.
“Quei due imbecilli...” pensò, rapidamente diretto alla propria macchina. “Ci mancherebbe soltanto che qualche orecchia un po’ troppo suscettibile fosse in ascolto...”
Lo sguardo offuscato dagli infiniti pensieri di quella giornata fin troppo impegnativa, fece un cenno al suo autista di accendere il motore - ma prima che il ronzio del propulsore elettrico rompesse il silenzio delle retrovie, una voce dall’inconfondibile accento esplose alle sue spalle.
“Ehi, Folgore!”
Sentirsi chiamare con il suo vecchio nome di battaglia fu come essere attraversato dalla corrente elettrica, da capo a piedi, e poi all’indietro. Perché quella voce non apparteneva ad un uomo qualsiasi.
“Vladimir Vassilievič Smirnov!”
Il comandante degli Strelzny, la guardia scelta dell’Imperatore d’Oriente, nella sua divisa bianca e scarlatta sembrava ancora più imponente di quanto lo ricordasse. Gli anni non avevano minimamente intaccato quell’uomo massiccio, né la luce scintillante che brillava nei suoi occhi, come vent’anni prima.
“Qua la mano, vecchio Folgore!”
Non se lo fece dire due volte: il suo autista, abituato a vederlo duro e rigoroso come una statua greca, non riusciva a credere che il grande generale Bardas Foca potesse sciogliersi così, e soprattutto di fronte ad un uomo appartenente al Nemico, all’esercito degli Slavi.
Ma quel giovane non sapeva che Bardas Foca e Vladimir Smirnov avevano combattuto insieme, molti anni prima. Non sapeva nemmeno che l’uno e l’altro si dovevano la vita a vicenda - e che questo aveva contribuito a renderli molto più che amici, quasi fratelli. Ecco: l’avesse saputo, l’improvviso calore sprigionante da quell’uomo altrimenti freddo e ieratico gli sarebbe sembrato molto meno strano.
“Vecchio ubriacone, quando sei arrivato?”
“Mezz’ora fa... Ho appena finito di schierare quegli imbecilli dei miei ragazzi - se tutto va bene, il mio imperatore sarà qui entro una decina di minuti.”
Foca era parzialmente sorpreso: “Allora Pietro si è convinto? Viene di persona?”
“E non soltanto lui... Ha deciso di portare con sé anche la principessa Marina.”
In quel momento, un vigoroso fragore spaccò in due il cielo sopra le loro teste.
“Come non detto: credo siano già arrivati.”

Il Misha russo discese sulla pista con poderosa goffaggine, assai diversa dalla sacrale perfezione che aveva accompagnato l’arrivo dei Persiani. A forma di un grande uccello, assomigliava vagamente allo stemma del loro esercito: l’aquila cruciforme, che campeggiava anche sul timone di coda, possente e minacciosa. Ma non ci volle molto perché l’attenzione di tutti gli spettatori sfuggisse via, ed abbandonasse il veicolo per concentrarsi sul contenuto.
Conclusosi il corteo dei boiari, nei loro abiti colorati e sgargianti - sebbene un po’ fuori luogo, visto il caldo assassino che stava calando sulla città santa, fu il turno dell’Imperatore d’Oriente, avvolto da un abito intessuto d’oro - tanto splendente da non sembrare vero, il cui capo era sormontato da un’alta corona traputanta di pietre preziose. Nessuna delle quali, comunque, né grande né splendente come “il cuore della Russia”, il gigantesco diamante purpureo incastonato sullo scettro regale. Se lo scopo di tanta ostentazione consisteva nel proclamare l’alterità dello Zar rispetto al mondo dei poveri mortali, in un certo senso il bersaglio era stato centrato in pieno - ma che tanto sfarzo corrispondesse a ciò che i Romani erano abituati a considerare buon gusto, beh, quello restava un altro discorso. E difatti il pubblico lo guardava con occhi sorpresi ed in qualche modo ammirati - ma la presa che, immediata, gli occhi scuri e scintillanti di Dario, attore consumato delle sceneggiate della politica, avevano saputo esercitare... Quella lo Zar non era stato nemmeno capace di sfiorarla.
Finché non arrivò lei.
Faceva parte del corteo, insieme agli altri membri della corte che avevano seguito lo Zar nel sacro pellegrinaggio a Gerusalemme: non indossava abiti ricercati, né scintillanti gioielli, ma la sua figura alta e bianca si stagliava sul resto di quel corteo come il Sole sulle altre stelle. Lunga, candida come neve, ed ancor più candidi i suoi abiti, la principessa Marina Petrovna Romanova era davvero degna della fama di celestiale creatura che i rotocalchi di tutto il mondo le avevano ricamato intorno. Nonostante l’imperatore suo padre fosse tanto geloso di lei da rendere le sue foto più rare di un uovo di fenice, le tre-quattro immagini scampate alla censura avevano creato intorno a lei una specie di leggenda... Una leggenda che, silenziosamente convenne anche Dìghenis, rispondeva ad una celestiale verità.

“La zarina Marina? Ma non sarà un po’ avventato?”
Il comandante in capo degli Strelzny, il corpo scelto equivalente della Guardia Pretoria, non trovò risposta migliore di allargare le braccia e rivolgere uno sguardo disperato verso il cielo.
“Da quando è morto lo zarevič Andrea, il vecchio Pietro si è aggrappato quasi morbosamente alla giovane Marina... Piuttosto che lasciarla a casa, sarebbe rimasto anche lui - e tu sai quanto sia importante per tutti noi questo vertice.”
Foca annuì, nervosamente: con il cumularsi delle teste coronate, la preoccupazione del generale diventava sempre più forte. Entro pochi minuti, il panorama si sarebbe completato - o quasi. Tre imperatori, gli ambasciatori del Celeste Impero di Mezzo e dell’India dei Maurya, i due patriarchi... Il patto più prelibato che fosse stato offerto a terroristi e pazzoidi da cinquant’anni almeno.
Ed il peggio stava cominciando proprio in quel momento - perché Tiberio VIII aveva deciso di fare la sua comparsa. Le quindici e tredici minuti: perfetto orario. Ma con un imprevisto.

“Ma che diamine sta facendo?”
Nessuno aveva mai visto il generale Bardas in quello stato. Uno sguardo in grado di incenerire la pietra - ed era niente in confronto a ciò che avrebbe riservato a quell’imbecille ragazzino non appena la sceneggiata si fosse conclusa. Perché Tiberio VII era un imperatore, e come tale gli doveva rispetto ed obbedienza - ma restava suo nipote.
“Dite a quell’imbecille di tornare dentro l’armatura mobile!!!!”
Troppo tardi. La folla era estasiata, e proprio le sue acclamazioni avevano anticipato l’arrivo del corteo imperiale - ed ora nemmeno le leggi della più rigorosa prudenza avrebbero permesso a quel disastro di ricomporsi.
Caio Flavio Tiberio Corrino si stagliava sul palmo della sua armatura mobile da parata, aggrappato alle grandi dita di metallo con la sinistra, e salutando la folla con l’altra mano. Sul capo le foglie dorate della corona imperiale, ammantato di abiti che echeggiavano i remoti vestiti trionfali dei Cesari e degli Scipioni, l’ultimo erede dell’Impero affrontava la folla cercando di nasconderle il sacro terrore che la presa gli sfuggisse, e che il continuo, inarrestabile ondeggiare dell’armatura mobile lo facesse cadere a terra. Dodici metri più in basso.
“Per la santissima vergine!” esclamò Dìghenis, attivando immediatamente tutti i sistemi d’arma: i piani di sicurezza erano andati tutti all’aria. Il programma prevedeva che l’Imperatore arrivasse alla spianata a bordo della propria auto cerimoniale, blindata - ma a Tiberio quello non era bastato, evidentemente. Doveva aver visto l’arrivo trionfale di Dario, raccogliendone la sfida - un ingresso degno degli antichi trionfatori sotto gli archi della Roma imperiale... Purtroppo, all’epoca di Scipione non esistevano i fucili, di precisione o meno, e la morte dell’imperatore Flavio II, quarant’anni prima, aveva dimostrato che i tempi antichi si fossero definitivamente dissolti...
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matte
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« Risposta #1 il: 04 Gennaio 2008, 09:51:11 »

“Speriamo,” mormorò Paolo, senza più pensare che qualcuno potesse ascoltarlo, “che la Guardia Civile abbia fatto il suo dovere, e che nella folla non ci sia qualche idiota...”
Dìghenis annuì, ma non gli rispose. Come da protocollo, attivò la modalità di fuoco ad alta precisione: la testa dell’armatura mobile si aprì come un tulipano, sostituendo le quattro telecamere con il singolo obiettivo ad alta precisione, che gli dava l’aspetto di un diabolico ciclope. Mentre il grande occhio rosso scrutava il mondo, cogliendo ogni frammento della concitata eccitazione che aveva travolta la folla, quattro supporti si distaccarono dagli arti inferiori per stabilizzare la posizione verticale, trasformando l’armatura mobile in una vera e propria postazione di fuoco semovente. Commutati i comandi, Dìghenis disabilitò la normale tastiera di controllo e fece discendere dalla volta dell’abitacolo il grande puntatore di precisione - grande e goffo, simile com’era ad un lanciamissili portatile, ma anche terribilmente efficiente, essendo direttamente collegato al sensore ottico del teleobiettivo grandangolare appena entrato in funzione.
Tutto secondo le direttive... No: non esattamente. Perché Dìghenis non aveva puntato il suo fucile di alta precisione verso la folla: il suo mirino era rivolto all’armatura mobile dell’Imperatore, il cui volto giovane ed incosciente, catturato dall’implacabile sguardo della telecamera, tradiva con una sofferta smorfia la preoccupazione che davvero quell’idiozia potesse trasformarsi in tragedia, e che le grida di giubilo che lo stavano accogliendo si spegnessero in strepiti di terrore. Rapidamente - erano telesorvegliati, e Dìghenis non aveva la minima voglia di sorbirsi l’ennesima strigliata del vecchio Bardas, fece scorrere la telecamera verso il petto dell’armatura mobile, in corrispondenza del portellone blindato dell’abitacolo.
“Uh?”
Rinchiuso nel suo abitacolo, nessuno vide la smorfia che smosse il volto Dìghenis: il portellone dell’armatura mobile imperiale era aperto. D’altra parte, se Tiberio VII era lì, in bella vista... Già, chi - se non lei, avrebbe potuto essere alla guida dell’unità personale dell’Imperatore?

“Irene!”
La stanza di comando era in subbuglio - ma la rauca voce del Prefetto, e quello strillo che sembrò divorare il microfono ridussero ogni cosa, persino i pensieri, al più rigoroso ed intimorito silenzio.
“Ciao zietto!”
Il Prefetto del Pretorio Bardas Foca, il petto gravido di medaglie e di onori, il più celebrato generale di tutto l’Impero Romano, era diventato rosso come un peperone, simile alle gote di Eolo come amavano dipingerlo gli antichi pittori poco prima di sollevare le onde del mare e di smuovere le nubi con il suo impetuoso soffiare. E come la celebre otre improvvidamente aperta dai frettolosi compagni di Ulisse, anch’egli minacciava di esplodere in una tempesta capace di scuotere la volta del cielo.
“Irene, dovevo immaginarlo ci fossi tu lì sopra! Cosa ti è saltato in mente!?”
“Stai tranquillo, zietto... Tiberio ha visto in televisione il numero dei persiani, e sai com’è fatto...”
Su questo era impossibile darle torto: Tiberio aveva scelto come titolo del proprio regno “nullus secundus” e non c’era frase che lo riassumesse meglio. Si parlasse di donne, di sport, di avventure - per farla breve: di qualunque cosa, Tiberio non aveva mai accettato di arrivare secondo a qualcuno. Tutti, e proprio tutti, ricordavano ancora la colossale sceneggiata inscenata dal diciassettenne Tiberio, allora Cesare d’Occidente, in occasione della sua inattesa eliminazione nelle semifinali delle olimpiadi di Luoyang. In barba alla ieratica freddezza che suo padre Eraclio aveva praticato, e gli aveva raccomandato sin dall’inizio del suo apprendistato imperiale, Tiberio aveva gettato via la mascherina protettiva in mezzo al pubblico, e spaccato in due la sua spada di bambù - il peggiore oltraggio che si potesse compiere in pedana, escludendo il cercare di romperla sulla testa dei giudici di gara. Cosa che, ovviamente, aveva tentato di fare subito dopo. Se per un caso più che fortuito due lottatori della squadra indiana non si fossero trovati nelle prime file del pubblico... Beh, Dio soltanto sapeva cos’avrebbe potuto combinare quel principe giovane e del tutto scapestrato. L’amore che la folla aveva riversato sul Re dei Persiani non fatto altro che stimolare l’indomito spirito competitivo dell’impetuoso imperatore - come sempre, più che assecondato da quell’altra testa matta della vasilissa Irene.
“Irene, questo è un ordine: fai rientrare subito l’Imperatore nell’abitacolo. È troppo pericoloso!”
“E smettila, Bardas!”
La voce dell’imperatore risuonò nella sala comandi come il rimbombare di una campana di bronzo.
“Impera...”
“Ti ho detto di smetterla, Bardas... Siamo in pace, questa è una festa... La folla vuole solo vedere il suo imperatore... E soprattutto faccio già una fatica di Sisifo a starmene aggrappato a questo pezzo di ferraglia, sorridere a destra a sinistra senza far capire che me la sto facendo sotto la tunica... se continui a distrarmi, stasera dovrai seppellire un altro imperatore.”
L’Imperatore sapeva che tanto non sarebbe bastato a disarmare il vecchio guerriero, ma non aveva né voglia né tempo per perdersi nell’ennesimo battibecco con il caro maestro. E, del resto, le grida della folla lo colmavano di piacere - non c’era nulla, al mondo, che potesse rivaleggiare con quella sensazione. Inebriante come una coppa di vino non tagliato.
Irene, intanto, rideva sommessamente - ma non meno di gusto.
“Smettila, sorellina... E vedi di condurre un po’ meglio quest’affare: non ho voglia di ridurmi ad una frittata...”
In altre circostanze, in barba al tono divertito di quelle parole, Irene si sarebbe certamente risentita. Fortunatamente, nella loro ancora ingenua gioventù, la coppia di giovani sovrani era quasi stordita dall’amore che il popolo di Gerusalemme, e di quella città non soltanto, su di loro riversava - in quella ed in simili occasioni. Tanto stordita da rinnegare per un attimo il proprio tipicamente corriniano orgoglio - fiero e selvaggio come le terre nelle quali la famiglia imperiale aveva lottato e combattuto prima di ascendere al trono della lupa.
“Su fratello, continua a sorridere!”

In compenso, Bardas Foca non aveva la minima intenzione di sorridere o scherzare. Il tiro giuocatogli dai giovani principi non era né divertente né tantomeno saggio. Anzi - si sarebbe dovuto dire l’opposto. Avevano ingiustamente complicato una situazione già tutt’altro che facile - e per ricavarne cosa?
Infuriato com’era, il celebre generale gettò il microfono sul tavolo - con tanta rabbia da spezzarlo in due. Dei pensieri che stava concependo, nessuno si potrebbe invero riferire in quest’occasione, essendo più degni dei lazzi di caserma che delle pagine di un libro che anche menti giovai ed innocenti potrebbero sfiorare ed accarezzare.
Sfiorandosi la barba grigiastra ed appuntita, gesto che soleva compiere con tale meccanica e sgraziata lentezza soltanto quanto la rabbia ed il nervosismo più profondamente gli scuoteva il cuore, il generale passò in rapida rassegna la situazione. Nonostante il suo sesto senso - ed il settimo, e l’ottavo, ed il nono, e tutti quelli che i filosofi del passato, del presente e del futuro aveva scoperto ed inventato - gli gridassero la gravità delle cose, il vecchio guerriero pensò che, forse, le cose non erano così disastrose. Ed ossessivamente rimasticava quel pensiero, quando un segnale alto e sgraziato, simile all’ululato di un lupo del nord, gli ricordò che nel mondo dei soldati l’ottimismo è sempre fuori luogo: un allarme aereo.
Fu come il cadere di una goccia nell’infinito silenzio di un grotta. Rimbombò sulle pareti, cogliendo tutti gli addetti del centro di comando con tanta sorpresa che - per un lunghissimo ed interminabile istante, l’uno l’altro si guardarono con gli occhi spalancati. Chiedendosi se quello non fosse uno scherzo od un errore.
Gli addetti al radar furono i primi a risvegliarsi da quell’incantesimo, ed armeggiando con la tastiera di controllo, ingrandirono il minuscolo segnale di un oggetto volante in avvicinamento ad alta velocità, ad altissima quota, a circa cinquanta chilometri di distanza.
“E quello cos’era?!!!” disse il generale Foca, con inattesa freddezza che fece risuonare le sue parole come se venissero da una voce divina.
Nessuno ebbe il coraggio di rispondergli, perché nessuno aveva la minima idea di cosa potesse essere. Nemmeno quando quello stesso segnale scomparve - un istante dopo. Anzi: c’era una cosa che tutti sapevano, e dall’istante stesso in cui quel puntino luminoso era comparso sullo schermo del radar - che dei grossi guai stavano cominciando.
“E quello cos’era?” ripeté il Prefetto, mentre la sua rabbia cresceva come il montare della marea sotto il soffiare del vento.
“Un aereo, signore... Probabilmente un aereo”
Se quelle parole arrivassero almeno a sfiorare le orecchie di Bardas, non possiamo saperlo. I registri militari ricordano con estrema precisione quel che accadde un istante dopo.
“Avvisate la Guardia, e trasmettete il segnale agli Strelzny ed ai persiani: allarme generale.”

La sirena dell’allarme piombò sulla folla inattesa e tanto imprevista che molti pensarono ad un errore. Irene si fermò all’improvviso, in mezzo alla strada per la spianata. Mentre le due armature mobili che gli facevano da scorta attivavano le armi a megaparticelle ed i sensori da combattimento, un dolore profondo e penetrante serpeggiò nelle membra della giovane principessa. Fu come se tutto il suo corpo avesse sperimentato in un solo istante il massimo dolore che ogni frammento delle sue membra poteva provare.
Ciò che accadde allora, nessuno l’ha mai saputo spiegare con certezza - nemmeno Irene. Che, istintivamente, senza un perché, fece girare l’armatura mobile verso la propria destra rivolgendo il dorso e la sua spessa corazza alla sua stessa scorta.
E mentre le grida di giubilo della folla si trasformavano in grida di terrore, quasi nessuno riuscì a cogliere la folgore scarlatta che dall’alto delle nuvole tagliò l’aria, e centrò l’armatura mobile alla destra dell’unità imperiale. Che subito esplose in un boato infernale. Migliaia di frammenti metallici, alcuni poco più grandi un pollice, altri più lunghi di un metro,  tutti ugualmente mortali, si sparpagliarono per decine di metri tutt’intorno, abbattendo e travolgendo qualsiasi cosa - uomo od oggetto, che s’interponesse sul loro percorso.
Quella che era stata una pacifica e lieta processione si tramutò in un infermo di fumo nero come la pece, di fiamme e di fuoco.

Dìghenis non ebbe nemmeno il tempo di imprecare. Sollevò la telecamera verso il cielo - grande ed azzurro, così remoto e distante dagli orrori che più sotto si stavano consumando - la puntò la dove il suo istinto lo guidava. E là lo vide.

“Non è in nessuno dei nostri registri, signore...”
Ma a Bardas non importava che fosse registrato o meno.
“L’imperatore...”
“Signore! Il rilevatore dell’armatura mobile di sua maestà è ancora operativo!”
Fu come se il cielo si fosse improvvisamente rasserenato - ma non era detto che fosse salvo. La mitraglia che aveva seguito l’esplosione, il fuoco e le fiamme - la cosa più probabile è che fosse morto. Insieme alle altre centinaia di persone che ora giacevano riverse per terra, ridotte a brandelli. Lui e la sua dannata mania per le sceneggiate!
“Bardas, giuro che questa è l’ultima volta che ti disobbedisco!”
Il nuovo risuonare della voce dell’imperatore, affannata, spezzata dalla tosse risvegliata dal denso ed acre fumo delle esplosioni, fu come il più dolce cantare degli angeli - tanto da piegare in un fugace pianto di gioia persino l’arcigno generale. Ma come...
“E’ sano è salvo,” intervenne la voce di Irene, scossa dall’emozione che doveva traversarle il corpo, “forse un po’ ammaccato, ma tutto intero!”
Bardas non attese altre spiegazioni od ulteriori chiarimenti: brandì il nuovo microfono come fosse stato una spada e gridò alla nipote di raggiungere immediatamente un luogo sicuro.
Ma Irene non lo sentì: la sua voce fu soffocata da un’altra esplosione. L’armatura mobile risparmiata dal primo attacco.

“Maestà la prego, da questa parte!”
Dario non volle sentire ragioni. Aveva visto tutto: il primo scintillare del nemico, all’orizzonte - per un istante aveva pensato ad un aereo romano, anche se dalla linea piuttosto inusuale... E poi quel fulmine scarlatto, e l’esplodere dell’armatura mobile, l’inferno che l’aveva seguita, ed il caos... Ed ora una seconda. Tutto in una manciata di secondi.
Chi lo vide quel giorno racconta che gli occhi di Dario s’incendiarono dello stesso sacro fuoco che la sua casata custodiva da generazioni, eredi degli antichi sacerdoti che re Jamshid aveva istruito a preservare l’eterna purezza della fiamma.
Lo scintillante orgoglio degli achemenidi, degli arsacidi, dei sassanidi, guidò le sue mani: la destra, a sciogliere il nodo del mantello, troppo ampio e raffinato per occasioni come quelle, e la sinistra a liberare la testa dalla tiara - ben altro copricapo sarebbe stato necessario a quell’occasione.
“Trovatemi un’armatura mobile! Subito!”
Il segretario Surenas era allibito, ma non ebbe nemmeno il tempo di protestare.
Dario corse verso uno dei Tabriz, rapido e regale come un leone. Mentre l’armatura mobile si piegava per proteggere con il grande scudo il corpo del suo Re, questi sollevò la destra e fece schioccare le dita. L’Immortale alla guida pensò ad un proprio errore, o ad un fraintendimento. Dario ripeté il gesto - e non ci fu più tempo per l’esitazione.
L’Immortale aprì l’abitacolo, e calò la scaletta verso terra. Non aveva mai visto l’imperatore così vicino - né mai quello gli aveva rivolto la parola. Eppure, in quell’occasione egli pensò sarebbe stato meglio non sperimentare mai quell’onore.
“Dammi la chiave di comando: quest’armatura mobile la prendo io!” gridò Dario, in quell’occasione assai poco ieratico.
“Ma vostra...”
Dario gli strappò la chiave di comando dalle mani, e con un balzo leggero e possente saltò all’interno del veicolo. Ancora si chiedeva quell’Immortale se tutto ciò non fosse altro che un sogno, che già l’Imperatore attivava la chiusura dell’abitacolo. Prima che il ventre d’acciaio del veicolo lo avvolgesse e lo proteggesse, l’Imperatore rivolse uno sguardo di fuoco al suo sottoposto, e gli parlò per la seconda - ed ultima, volta: “Non contraddire mai più il tuo padrone!”

Ma come poteva volare? A quella domanda, Dìghenis avrebbe però dovuto rispondere un’altra volta.
“Cosa fai, Ghen? Andiamo!”
Paolo aveva già riattivato la modalità di combattimento standard. Imbracciato il cannone a megaparticelle, il tribuno stava già discendendo dal crinale verso la spianata: non aveva nemmeno aspettato gli ordini. L’armatura mobile scivolava sulla polvere sollevando una nuvola rossastra, lanciandosi verso la battaglia; le quattro telecamere principali, puntate verso il cielo, inseguivano ancora l’oggetto misterioso - che sembrava scomparso.
Sotto l’attento sguardo di Dìghenis, che non l’aveva perso mai di vista, che l’aveva continuato ad inseguire sfruttando la telecamera ad alta risoluzione, quell’aereo dalle vaghe sembianze di un uccello meccanico s’era tramutato in un’armatura mobile.
“Non è possibile...”

“Gavnò!” pensò Vladimir Vassilievic Smirnov: un’armatura mobile di quarantacinque tonnellate non può volare, non a quella velocità, non a quell’altezza. Un’armatura mobile non può integrare i complessi sistemi necessari a permettere una transizione di assetto...
“Date ordine di immediato intervento a tutti gli Strelzny! Fuoco a volontà!”

Non potevano restare lì - Irene non aveva capito la situazione, non completamente, ma dovunque fosse scappata sarebbe stato meglio che restare lì, in mezzo al fuoco ed alle fiamme, circondati dai cadaveri e dai rottami, in attesa che quel giustiziere aggiustasse la mira.
“Siediti qui, dietro di me!” ordinò al fratello, che non se lo fece ripetere. L’abitacolo era molto stretto, ma il corpo longilineo ed agile di Tiberio non faticò ad inserirsi fra la poltrona di comando e la paratia corazzata dietro di essa. Il punto più sicuro di tutto l’abitacolo - il posto della carità, così lo chiamavano i piloti.
“Cosa facciamo, Irulan?”
Sentendosi chiamare con il proprio nome segreto, la giovane augusta realizzò che il fratello le stesse affidando tutto - sé stesso, il loro futuro, persino l’Impero, tutto riposava sulle sue spalle. E non era una piacevole sensazione.
“Di qua!” esclamò, dando piena potenza ai reattori di spinta dell’armatura. Non aveva la minima idea di dove stesse andando: troppo denso il fumo intorno a loro. Ed i sensori, inspiegabilmente, avevano smesso di funzionare, quasi completamente.
Ma non importava: dovevano muoversi. Balzarono sulla loro destra, travolsero le transenne e l’area destinata al pubblico - ormai deserta: senza rendersene conto, stava correndo verso Dìghenis e Paolo, verso i rinforzi della Guardia e degli Strelzny che, rapidamente, stavano convergendo in quella direzione.
E poi lo vide.
Occhi scintillanti di fuoco nel nero impenetrabile dei fumi che stavano stritolando quel tratto di strada: questa fu la prima cosa che Irene riuscì a vedere, e le sembrò un demonio sfuggito alla prigione del Cocito, con la sua spada di fiamme infernali pronta a colpirlo.
Irene arretrò di un passo, abbastanza per evitare il poderoso fendente scatenato dal demonio. Mentre la spada a megaparticelle dell’armatura mobile sconosciuta fendeva il fumo nero, e lo condensava in spirali intorno ad essa, un pensiero freddo e doloroso si formò nella mente della principessa, e così dell’Imperatore.

“Questo non è un attentato...” eclamò Dario, accorrendo sulla scena più veloce che poté. E lo stesso pensò Paolo, spingendo il reattore del suo Cerberus oltre i livelli di pericolo.
“Questa è un’esecuzione!” mormorò Bardas, che ancora non riusciva a capire come quell’affare fosse riuscito a passare indenne fra quattro aerei radar, e sette squadriglie di caccia bombardieri, nella regione dell’Impero coperta dall’ombrello d’acciaio della più avanzata antiaerea. E, come se non bastasse, quello stesso mostro era riuscito a colpire un’armatura mobile di sesta generazione con un’arma tanto potente da farla esplodere - in un colpo solo.

“Via di qui!” pensò Irene. Ma i comandi non le rispondevano. Erano rimasti danneggiati durante l’esplosione dei due veicoli di scorta: gli scossoni di quell’ultima scansata dovevano aver dato loro il proverbiale colpo di grazia. Erano immobili, ed il demonio era sopra di loro, con la sua spada a megaparticelle pronta a colpire.
“Muoviti! Muoviti!”
Niente, tutto inutile.
Irene chiuse gli occhi, e silenziosamente pronunciò si raccomandò alla Santa Vergine - e così non vide Paolo gettarsi con tutto il peso del suo Cerberus contro l’armatura mobile sconosciuta, e gettarlo via con un assordante fragore metallico.
Ancora scosso dall’impatto, Paolo non vide gli occhi dell’armatura mobile nemica farsi ancor più fiammeggianti ed infernali, reclamando una preda ormai conquistata - e persa all’ultimo secondo per l’inattesa sua intrusione.
Prima che potesse imbracciare la sua, la spada a megaparticelle di quel demonio lo fece a pezzi. Gli tranciò le due braccia, le due gambe, rapida come il fulmine - ed infine la testa. Il cuore gli correva a mille, perché già sentiva la stessa lama penetrare la corazza frontale come fosse stato burro, e sfondare l’abitacolo, ridurlo a cenere fumate ...
Chiuse gli occhi - ma l’esplosione che l’assordò non fu quella del suo veicolo.
Sopra di lui, un preciso colpo di un fucile a megaparticelle aveva colpito in pieno la mano dell’armatura mobile nemica, provocando l’esplosione delle cellule di combustibile della sua spada. Un colpo da maestro: Dìghenis.
Non fece in tempo a felicitarsi della propria bravura, che l’armatura mobile emerse dai fumi di quell’ultima esplosione, niente più che bruciacchiata e graffiata - ancora più minacciosa.  Raggelò: mentre quella testa demoniaca, sormontata da un ampio diadema dorato a forma di V, si volgeva verso di lui capì di essere diventato la nuova preda di quell’infernale cacciatore.
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